Cronache di un partito senza identità

Nel libro di Alfredo Reichlin, la ragione storica della sconfitta dei comunisti italiani: legati all’Unione sovietica ma illusi di essere soprattutto una forza di rinascita nazionale. E oggi? Sopravvivono solo le cordate di potere

Quando, nel febbraio 1991, il Pci si sciolse (e dalle sue ceneri nacquero il Partito democratico della sinistra e Rifondazione comunista), esso era ormai il fantasma del grande partito che era stato un tempo: basti pensare che nelle elezioni politiche del 1976 aveva raggiunto il 34,4% dei voti, mentre nelle elezioni regionali e amministrative del maggio 1990 perse voti dappertutto e si fermò a un 24%. Ma il declino del partito era ancora più grave di quanto questa percentuale dicesse: diminuiva in modo impressionante l’incidenza comunista fra i giovani (nel 1988 appena il 2,5% degli iscritti aveva meno di 25 anni); il partito diventava ormai un’organizzazione in cui gli ultracinquantenni e i pensionati assumevano un peso sempre maggiore. All’origine di questa decadenza c’era certo la crisi dell’Urss e del suo impero, crisi che preludeva al crollo; ma c’era anche la totale mancanza di una proposta politica credibile per la società italiana.
Questa doppia sconfitta (la caduta del mito comunista sovietico, che tanto aveva alimentato i successi del Pci, e l’incapacità di capire il paese e di indicarne una via di sviluppo) è al centro del libro di Alfredo Reichlin, uno dei massimi esponenti del defunto partito (è stato direttore dell’Unità, e autorevole membro della Direzione). Il libro si intitola Il midollo del leone. Riflessioni sulla crisi della politica (Laterza, pagg. 143, euro 15), e vuole essere tanto un’analisi del passato quanto una prognosi per il futuro (della sinistra).
È un documento significativo, questo libro, perché, pur essendo nato da una riflessione sincera e sofferta, dimostra la sostanziale incapacità dei vecchi dirigenti comunisti di farsi una ragione del fallimento della loro impresa. Questa incapacità è dovuta in primo luogo a una contraddizione irrisolta: da un lato, infatti, i vecchi dirigenti comunisti sanno bene che tutta la storia del Pci è intessuta del mito della rivoluzione leninista in Russia, del mito dell’Unione Sovietica, del mito del comunismo; ma dall’altro lato essi pretendono che il Pci sia stato un partito del tutto autonomo, nazionale (anzi, interprete della rinascita della nazione), aderente a tutte le pieghe della società italiana, senza ipoteche di nessun genere. Ma è la stessa onestà intellettuale di Reichlin che smentisce questo stereotipo. Come quando egli ci racconta, attingendo al serbatoio dei suoi ricordi, che nel 1945 un corteo di ragazzi delle scuole giunse a piazza Esedra, a Roma, per manifestare per Trieste italiana, e qui «fu accolto da squadre di edili organizzate dalla Federazione comunista che li picchiarono a sangue». O come quando ci racconta che la famosa scuola di partito, installata dal Pci alle Frattocchie, era intitolata ad Andrej Zdanov, uno dei più fidati collaboratori di Stalin. Bisognerà arrivare al 1981 (dicesi 1981) perché Berlinguer - essendosi verificata in Polonia una rivoluzione, questa sì proletaria, contro la dittatura comunista - dichiari «esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre». E Reichlin non dice (ma avrebbe fatto meglio a dirlo) quante resistenze la formula di Berlinguer suscitò nella base del partito e nei suoi dirigenti intermedi! E tutto ciò, sebbene Berlinguer non aderisse in nessun modo alla democrazia liberale occidentale, ma propugnasse una fumosa «fuoriuscita» dal capitalismo e il passaggio a una società «radicalmente nuova» (sicché il mito marxista, cacciato dalla porta, rientrava dalla finestra).
In questo quadro appare del tutto fuori luogo la vera e propria esaltazione che Reichlin fa della figura di Berlinguer, la cui biografia intellettuale e politica è completamente iscritta nella storia e negli schemi del comunismo della Terza Internazionale. Anche la tanto celebrata e «innovativa» proposta berlingueriana del «compromesso storico» si iscriveva nella strategia togliattiana di una alleanza di governo «fra le grandi forze popolari»: del resto Berlinguer sapeva che il Pci, per la sua storia, per la sua natura, non avrebbe mai potuto diventare una alternativa politica in Italia: e ciò non per la tanto vituperata (dai comunisti) conventio ad excludendum (per altro infranta da Aldo Moro), ma perché era il popolo, col suo voto ai partiti democratici, a sbarrare al Pci la strada.
Ho detto che Reichlin si occupa anche della situazione attuale e del futuro della sinistra in Italia. E a questo proposito formula riflessioni degne di nota. Per esempio, a un certo punto l’autore si chiede perché la costruzione del Partito Democratico sia stata così difficile. E risponde: «Era senza popolo. E se prevalesse la tendenza a trasformare il Partito democratico in un assemblaggio di cordate le quali rappresentano alleanze essenzialmente elettorali volte quasi esclusivamente a conquistare le cariche elettive (aspirazione di per sé giusta), la conseguenza sarebbe il venir meno dell’ipotesi stessa di costruire una grande forza a vocazione maggioritaria».

Dunque il Partito democratico rischia di essere, secondo Reichlin, solo un coacervo di apparati per costruire carriere politiche, senza un progetto complessivo capace di trascinare. Si tratta, come si vede, di un giudizio molto duro, che susciterebbe indignazione a sinistra, se non fosse pronunziato da uno dei capi storici del PCI.

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