Scena del crimine

"Incinta del padre e sequestrata:ecco perché sua madre ha nascosto l'orrore"

In provincia di Lecce una vicenda giudiziaria che racconta di violenza sessuale di una figlia, da quando questa aveva 7 anni, di sequestro di persona, di un bambino nato dall'incesto. "Nella storia di tutti i serial killer, c’è stato un abuso subito", dice lo psichiatra Francesco Tornesello

"Incinta del padre e sequestrata:ecco perché sua madre ha nascosto l'orrore"

Un orco in casa. Una madre complice dell’orco. È questa la ricostruzione mediatica di un dramma reale accaduto in provincia di Lecce. Come si può leggere - e provare a comprendere - una vicenda giudiziaria, una storia umana, che parla di una figlia abusata dal padre dall’età di 7 anni, costretta ad abortire, segregata in casa con il benestare della madre? Sono di pochi giorni fa i risultati dell’udienza preliminare, che ha coinvolto una sopravvissuta alla violenza nel ruolo di accusatrice e i suoi genitori nel ruolo di accusati: ci sarà un processo per sequestro di persona, dopo che un altro processo per violenza sessuale ha già portato alla condanna a 17 anni in appello del padre, dopo che l’esame del Dna ha stabilito che il primogenito della figlia, avuto anni dopo il presunto aborto forzato, fosse suo. Quindi la figlia non è la sola presunta vittima, lo è anche il bambino avuto dall'incesto. "Nella storia di tutti i serial killer - spiega Francesco Tornesello, psichiatra e giallista, a IlGiornale.it - c’è stato un abuso subìto, la precoce perdita di una innocenza, la mancanza di un affetto ricevuto".

Dottor Tornesello, cosa può spingere un padre verso questo tipo di violenza?

“La domanda corretta è: cosa può spingere un uomo a tanto? Perché, dopo secoli di rispetto ipocrita verso le donne (che non si toccherebbero neanche ‘con un fiore’) e dopo anni di confronto sui temi dell’emancipazione prima, della parità poi, milioni di uomini, in diversi ambiti culturali e sociali, continuano ad alimentare una distorta visione del potere derivante dal genere, quindi una violenza intrinseca nei confronti delle donne. In condizioni di arretratezza culturale e sociale più accentuata, laddove il tabù ancestrale dell’incesto viene superato dalla sottocultura del branco, con il maschio alfa, il dominante, al vertice della piramide familiare, può accadere quello che è accaduto in questo fatto di cronaca”.

Cosa può spingere invece una madre non solo a fare finta di nulla, ma anche ad aiutare l’orco?

“È sempre un problema di sottocultura, quindi di adesione acritica al modello delineato in precedenza, in cui la subalternità della femmina, ma sarebbe più corretto dire delle femmine, nei confronti del maschio è pienamente introiettata. Negli umani poi, oltre alle regole comportamentali del branco, ci si mettono a complicare le cose tante varianti: il bisogno di alcune sicurezze legate al ruolo e alla necessità, l’educazione ricevuta, la debolezza di carattere, che è un fatto individuale, ma che si nutre di quelle varianti. E in questo contesto è la paura, ma anche l’attaccamento a piccoli e miseri privilegi, a generare forme di complicità, altrimenti incomprensibili. Ricordiamo che, ad Auschwitz, i kapò erano altrettanto feroci rispetto agli aguzzini delle SS”.

Com'è possibile che la donna di questa storia sia riuscita a ritagliarsi una specie di libertà entro cui avere un matrimonio e una successiva relazione importante?

“Lo so, la cosa può sembrare incredibile. Ma, al di là di quella che noi chiamiamo personalità, ovvero le capacità emotive, cognitive e volitive che ogni individuo elabora e rende proprie, c’è quello che i filosofi tedeschi chiamano zeitgeist, ovvero l’aria dei tempi, il clima culturale che, in qualche modo, tutti respiriamo, e che, più che mai in epoca di comunicazione diffusa e alla portata di tutti, ci raggiunge ovunque, anche nelle sacche di arretratezza socioculturale più estreme. Ma è evidente che, per scegliere il messaggio giusto tra tutti quelli che ci raggiungono nell’aria del tempo, occorre una personalità forte, un carattere ben strutturato: che evidentemente questa donna ha. E per questo merita la nostra ammirazione, ma, soprattutto la nostra solidarietà e il nostro aiuto. Perché le risorse psicologiche non sono infinite, e la prova cui è stata sottoposta è troppo dura”.

Com’è possibile che nessuno se ne sia accorto prima? Tanto più che la sopravvissuta è stata anche al di fuori della famiglia.

“A parte il fatto che, per un apparentemente assurdo senso di vergogna, spesso la vittima tende a celare, a non rendere percepibile la sua sofferenza, troppe volte si crea una assurda incapacità di percepire cosa accade intorno a noi. Ma non è vero, il fatto è che troppo spesso ci fingiamo ciechi e sordi per non caricarci di bisogni che non ci appartengono. Per egoismo, per cattiva cultura (quella del farsi i fatti propri), per maligno retropensiero che una certe cose ‘se l’è cercate’, per una brutta aria del tempo. Per cui, se si assiste a una aggressione di una donna o di un disabile, non si interviene in aiuto, non si chiamano le forze dell’ordine, ma si riprende con il cellulare e si posta su Facebook”.

Quali potrebbero essere i traumi futuri per i figli nati dall’incesto?

“Questa è una domanda che è difficile porre, e a cui è difficile rispondere. Perché nella domanda e nella risposta si nasconde il problema. I traumi possono essere enormi, e difficilmente superabili, se l’aiuto che noi dovessimo dare a quei figli dovesse essere centrato sul superamento del trauma, scusate il bisticcio di parole. Quello che sarebbe importante dovrebbe essere il dare loro la possibilità di formare una personalità adeguata, un carattere stabile, non ponendoli necessariamente di fronte a una verità che potrebbe essere intollerabile, almeno fino a che non si sarà sicuri che le loro capacità emotive e cognitive siano adeguatamente strutturate, per evitare il rischio dell’emulazione paradossale. Ovvero la necessità di riproporre quei comportamenti che sono stati alla base della nostra sofferenza iniziale. Ricordiamo che, nella storia di tutti i serial killer, c’è stato un abuso subito, la precoce perdita di una innocenza, la mancanza di un affetto ricevuto”.

Che tipo di conseguenze psicologiche ci sono su una donna che non solo subisce violenze, ma viene prima costretta ad abortire, poi a tenere il figlio dell'incesto e infine viene sequestrata?

“Perdita della più elementare sensazione di sicurezza, ovviamente, quindi vissuti di solitudine e di minaccia assoluta. Perdita di autostima, con sensi di colpa, apparentemente assurdi, ma psicologicamente assai radicati. Introiezione di un modello di sé negativo, con il rischio di acritico attaccamento a qualunque figura possa sembrare un sostegno, o una liberazione, con il rischio di reiterare gli errori compiuti da altre donne, prima di lei. Ansia, angoscia, depressione o, peggio, meccanismi di negazione e di creazione di realtà fittizie, solo apparentemente rassicuranti”.

Qual è il percorso utile per aiutare queste donne, sia in un rapporto di parentela/amicizia sia come istituzione?

“In teoria, la risposta più facile riguarderebbe il livello delle istituzioni, perché esse (centri di salute mentale, consultori) dovrebbero avere sia le figure professionali, sia la cultura di servizio, in grado di dare risposte all’angoscia esistenziale o alle eventuali fenomenologie psicopatologiche che dovessero evidenziarsi. Questo forse in teoria, perché, al contrario di quanto si faceva in passato, quando forse l’aria del tempo era migliore, ora quei servizi sociosanitari si sono un po’ trasformati, un po’ impigriti, come accade alle forze dell’ordine che, alla donna che lamenta uno stalking, rispondono di non poter intervenire, perché non è ancora accaduto niente di grave. L’aiuto di amici e parenti dovrebbe consistere nella rassicurazione, nel non dare mai risposte colpevolizzanti, volontarie o involontarie. Ovviamente a patto che quegli amici, quei parenti, siano degni di questo ruolo, che non siano stati essi stessi ciechi, sordi e muti davanti alla consapevolezza di ciò che quella donna ha subito”.

Esistono degli strumenti per la rieducazione della persona violenta?

“Che gli strumenti esistano è indubbio, ma la rieducazione è un percorso interiore, che ha bisogno di volontà e consapevolezza. La rieducazione non è un farmaco che può essere iniettato e che, quindi, fa effetto indipendentemente dalla volontà di chi lo riceve. Quindi la rieducazione è un punto di arrivo, non di partenza. E non è detto che tutti ci arrivino. Quarant’anni di questo lavoro mi hanno portato a pensare che, pur essendoci sempre rapporti causa-effetto nei nostri comportamenti, il risultato che si crea può essere a volte non modificabile: è il concetto di male assoluto, che di solito è oggetto della religione e dell’etica, ma con cui dobbiamo a volte confrontarci. Forse è per questo che ho cominciato a scrivere storie, in cui le miserie, le crudeltà ottuse commesse dagli umani, possano essere rappresentate: così, dopo ‘La logica della spirale’ in cui cercavo di dare una lettura del delitto di Avetrana, ho cominciato a pubblicare una serie di racconti gialli, in ognuno dei quali le debolezze e le miserie dell’animo umano possano essere raccontate senza addolcimenti.

Ma lì, almeno, c’è il commissario Martini a fare chiarezza e, in qualche modo giustizia”.

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