Politica

Addio a Bonaiuti, la penna che sussurrava al Cavaliere

Addio a Bonaiuti, la penna che sussurrava al Cavaliere

Era un giornalista e un politico, era un vecchio amico, era un uomo calmo, gentile, ironico, un testimone che è stato ai margini del potere politico, con un aplomb più inglese che italiano. Infatti, amava l'inglese come lingua e la insegnava, e da giornalista ci vedevamo per caso sui luoghi in cui accadevano le cose, come accade nelle nostre vite raminghe. Diventò un collaboratore di Silvio Berlusconi ed entrò nei suoi governi con un rango molto speciale: quello di sottosegretario alla presidenza del Consiglio, molto più di un ministro. Quando uno di noi, giornalisti intendo, commette quel passo terribile e irreversibile, di indossare una casacca e correre per una bandiera, poi la pagherà per sempre o almeno non sarà mai più guardato come un professionista della comunicazione. È inevitabile, ma anche triste e sbagliato. Paolo fu un amico in particolare di tutti i giornalisti diventati deputati o senatori ma anche di tutti i giornalisti nel loro complesso, non importa di quale testata o posizione politica. Nel Transatlantico di Montecitorio formavamo di nuovo quella buffa, talvolta anche patetica combriccola dei giornalisti che vivono surfando la politica, ora dentro, ora fuori la linea, sempre preti sempre spretati, mai più preti, mai del tutto spretati. Era toscano e mi fa un'enorme e terribile impressione leggere ciò che già sapevo: eravamo coetanei, giusto qualche mese di differenza, ma la grande livellatrice ci maltratta tutti per un po', ci sfigura e ci trasforma, e poi ci sputa dalla vita affidandoci per chi ha avuto visibilità, al necrologio o come si dice in gergo al coccodrillo, la cui insincerità nelle lacrime di cordoglio è proverbiale.

Dunque, ecco l'amaro evento: mi ritrovo a scrivere il coccodrillo di Paolo Bonaiuti che invariabilmente, quando mi vedeva mi dava una pacca sulle spalle e mi accoglieva con un «oh Paolino», ignorando quanto io abbia sempre detestato quel diminutivo. Era un uomo veramente perbene, senza rancori o se ne aveva ben nascosti, un uomo molto saggio e dotato di quella speciale qualità che io - come giornalista passato alla politica e rientrato nel giornalismo - non ho mai avuto e che ho sempre guardato con curiosità, se non invidia.

Dunque, era sempre ben informato e anche molto ben informato. Si occupava di editoria, di questioni legate all'informazione e dunque alla libertà di stampa che in un Paese come il nostro non è esattamente un bene e prodotto che stia sul mercato con le sue sole zampe, ma che ha sempre bisogno di grucce, stampelle, iniezioni e sciroppi per seguitare a campare. Nelle democrazie pure e toste chi non vende copie chiude bottega, ma da noi sarebbe un peccato. Quindi, Paolo fece parte - per una lunga stagione del berlusconismo di governo - di quella zona di interconnessione fra politica e giornali, quando ancora l'informazione non era una materia virale purulenta e patogena com'è oggi, in tempi in cui quasi tutto è di incerta fonte e di dubbio riferimento. Allora, si poteva e si doveva mediare. Paolo Bonaiuti fece una scelta di campo, si schierò con Forza Italia e con il suo leader finché il Cavaliere fu al governo e soltanto alla fine, dopo l'ultimo governo, aderì al Nuovo centrodestra e poi con il crollo di quella formazione, ad Alternativa popolare in un tramonto politico che portava fuori dai vecchi binari senza averne di veramente nuovi.

Era stato prima un eccellente inviato speciale d'economia ma anche sui fronti di guerra, e poi un mediatore calmo, un realista sempre corretto, un ascoltatore tranquillo, senza mai dismettere quell'abbigliamento borghese rigato e in doppiopetto. Per questo, uno dei miei ricordi più inaspettati rispetto alla sua personalità è quello di lui al Messaggero di Roma negli anni Ottanta quando comparve in una festicciola innocente ma per quei tempi molto libertaria e molto stravaccata. Lo ricordo perché si avvertiva il suo disagio. Sorrideva, rispondeva alle battute, fu costretto a sedersi anche per terra tutto impupazzato nel suo nobile doppiopetto e si lasciò anche versare qualche bicchiere di vino rosso, ma dopo pochi minuti semplicemente scomparve e non c'era più: anche le assenze disegnano un carattere. Le lapidi on line ieri ricordavano che fu vicedirettore vicario del giornale romano e un bravissimo cronista di grandi eventi europei come il trattato di Maastricht. Tuttavia, non lo ricorderemo certo per il suo giornalismo inappuntabile, quando per la sua natura calma e accurata, il suo modo di essere e di vestire in modo accurato e tuttavia mai clamoroso, si incontrò quasi naturalmente con quella del leader di Forza Italia Berlusconi, che Bonaiuti aveva criticato ai tempi dell'uscita di Indro Montanelli dal Giornale, ma che aveva riconosciuto in lui il genere di buon talento che serve nella buona politica.

Un talento fatto di cordialità, rapporti umani, diplomazia, pazienza, capacità di ascoltare specialmente chi si trova dalla parte opposta a quella del suo partito. Ieri alla notizia della sua morte in una clinica romana al termine di una lunga malattia, si sono subito registrati encomi bipartisan di riconoscimento per un comportamento inappuntabile, intelligente, sornione e per fortuna ricco di senso dell'umorismo. Per anni era stato il portavoce di Berlusconi e anche la sua mail box, anzi la casella vocale: se volevi far sapere qualcosa al presidente del Consiglio, prima di tutto - si diceva - senti Bonaiuti. Anzi: senti Paolo. Come ogni buon diplomatico, quando diceva sì intendeva dire forse, se diceva forse voleva dire no, e da buon diplomatico non diceva mai un no netto, semmai faceva un sorriso da sfinge o da fiorentino che sa come va la vita, come scorre il fiume e qual è il modo più onesto per raggiungere gli obiettivi possibili, evitando i fracassi di scena e le ipocrisie intemperanti. Oh, Paolino, te ne sei andato e non c'eravamo neanche più visti negli ultimi anni.

Ma si sa che è così che vanno le cose della vita, fra cui la morte.

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