Chi spinge un bambino a farsi esplodere in mezzo ad altre persone può essere chiamato terrorista, o criminale, o folle, o semplicemente vigliacco. Può essere chiamato, esecrato e condannato in tanti modi. Ma può anche, semplicemente, essere etichettato - per quello che servono le etichette nel supermercato dell'orrore in cui ci hanno cacciato questi tempi miserabili - con la parola «diverso». Una parola che sa di razzismo, lo capiamo, eccome. Ma che pure rimane una parola vera.
Nella guerra tra noi e loro, tra la nostra e la loro civiltà - altra categorizzazione da tanti rifiutata in nome di un ecumenico e rassicurante multiculturalismo, ma che invece rende bene l'idea - «noi», attraverso i secoli, abbiamo elaborato come concetto filosofico centrale della morale e come pilastro dell'etica moderna l'idea che i bambini sono intoccabili. Che devono essere salvati per primi. Che devono essere i più tutelati. Che devono essere difesi a scapito della nostra vita (ed è il motivo per cui, ad esempio, nessuno di noi riesce a sopportare la visione delle madri rom, o sinti, o zingare, che trascinano per le metropolitane i loro bimbi addormentati, o drogati, per strapparci l'elemosina).
«Loro», invece, non si fanno scrupolo di mandare avanti i propri figli, usarli come scudi o come kamikaze, usandoli e usandone l'infanzia, l'ingenuità, i giochi - la maglietta di Messi - pur di ucciderli e di uccidere. Il bimbo fermato a Kirkuk prima che si facesse esplodere è soltanto l'ultimo di una lunga serie di minori utilizzati dalla macchina del terrore dell'Isis e di Boko Haram (che per l'Unicef utilizzerebbe adolescenti in almeno un attentato su cinque). Il catalogo della bestialità non ha fine: bambini-soldato, bambini-kamikaze, bambini-boia, scuole per addestrare ragazzini a uccidere, bambine-prostitute per i miliziani... Anche in natura, tra gli animali feroci della foresta o della savana, si fatica a trovare specie che utilizzano i figli per uccidere al proprio posto.
In realtà è chiaro che quei bimbi non sono né kamikaze né boia né prostitute. Restano semplici bambini. Bambini senza alcuna colpa (come non l'aveva il piccolo Aylan affogato sulla spiaggia di Bodrum, come non ce l'ha il piccolo Omran scampato dai bombardamenti di Aleppo) ma vittime di bestie feroci che solo per convenzione continuiamo a chiamare col nome pietoso di «uomini». E alla fine, saltando con la rabbia dello sconforto i buoni principi, democratici e progressisti, dell'accoglienza e del rispetto dell'«altro», dobbiamo ammettere - con dolore e con cattiveria - che «l'altro» è qualcosa di diverso da noi. Che, almeno di fronte ai nostri figli, noi non siamo come loro. Forse siamo razzisti, forse abbiamo perduto i valori fondamentali della cultura occidentale, forse la nostra civiltà sta naufragando, e noi stiamo per essere trascinati a fondo dal nichilismo filosofico, dal relativismo religioso, da un consumismo fuori controllo. Forse sì. Ma nelle poche scialuppe disponili, noi cercheremmo comunque, disperatamente e umanamente, di mettere in salvo prima le donne e i bambini.
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