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Barricati nel Palazzo

Giuseppe Conte, Alfonso Bonafede e il rivoluzionario Alessandro Di Battista, nelle polemiche contro la riforma della Giustizia del ministro Marta Cartabia, appaiono come attori sulla via del tramonto: recitano il copione di una commedia fuori moda.

Barricati nel Palazzo

Giuseppe Conte, Alfonso Bonafede e il rivoluzionario, perennemente in vacanza, Alessandro Di Battista, nelle polemiche contro la riforma della Giustizia del ministro Marta Cartabia, appaiono come attori sulla via del tramonto: recitano il copione di una commedia fuori moda, che non piace più al pubblico. Non si rendono conto che il giustizialismo imperante e forcaiolo è un capitolo chiuso, almeno per la maggioranza degli italiani. Ricordano i giacobini che, mentre venivano portati alla ghigliottina durante il Termidoro, insultati dalla stessa folla che li aveva incensanti mentre mandavano a morte gli aristocratici dell'ancien régime, gridavano le stesse parole d'ordine del periodo del Terrore, ignari del fatto che ormai per il popolo erano prive di appeal.

L'assurdo è che il tardo-grillismo protesta per un provvedimento che, nei fatti, è solo una toppa alla riforma grossolana della prescrizione firmata da un ex-dj che, nell'epoca dell'incompetenza, si è scoperto Guardasigilli. Una pezza per rimediare ad un errore marchiano. Nulla di più. Anzi, davvero poco. Ci vorrebbe ben altro per riformare la giustizia, molto di più, e lo dimostrano le lunghe file di persone che affollano i gazebo per firmare i referendum. È la nuova realtà del Paese. Se ne sono accorti tutti: tre quarti delle forze politiche sicuramente; pure dalla segreteria di Nicola Zingaretti hanno telefonato a Matteo Salvini per comunicargli che un pezzo del Pd (basta ricordare la presa di posizione di Goffredo Bettini) è della partita; addirittura, i magistrati hanno annusato l'aria, tant'è che, per la prima volta, puntano su una riforma approvata per via parlamentare, terrorizzati come sono dal probabile esito della consultazione popolare.

Gli ultimi giapponesi 5stelle, invece, trincerati sugli scranni parlamentari, si ostinano a resistere, minacciano a vuoto come le Tigri di carta di Mao-Tse-Tung. Eppure, pezzo dopo pezzo, il loro mondo sta venendo giù. C'è una corsa a smontarlo: se Salvini lancia i referendum sulla Giustizia, Matteo Renzi annuncia per il 2022 la raccolta di firme su un quesito che abolisce il reddito di cittadinanza. Il dramma è che la loro ostinazione a non guardare in faccia la realtà, l'ostinazione - non va dimenticato - dell'attuale partito di maggioranza relativa allontana il Parlamento dal Paese e rischia di creare una pericolosa crisi di rappresentanza: se nella prossima primavera la maggioranza degli italiani dirà «sì» ai referendum sulla giustizia, cioè su un tema su cui le Camere per colpa dei grillini non riescono a legiferare o sono costrette ad approvare riforme dimezzate, la distanza tra Paese reale e Parlamento diventerebbe siderale. A quel punto sarebbe arduo tenere in piedi una legislatura condizionata dai protagonisti di una stagione ormai archiviata: i grillini si ritroverebbero nello scomodo ruolo di inquilini di un Parlamento che ha perso ogni legame con la maggioranza degli italiani.

Un paradosso per chi, nato all'insegna dell'assalto al Palazzo, per sopravvivere a se stesso, fosse costretto a barricarsi nel Palazzo.

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