
I leader europei in trasferta a Washington hanno il compito primario di ricordare a Trump cosa è stata la Guerra Fredda. E soprattutto come è andata a finire. Non per amore di verità ma per la sicurezza dei Paesi che rappresentano. Soprattutto ora che i vincoli transatlantici si sono allentati, non possono permettersi che Putin possa continuare a bussare alle porte del continente. Il compito non è dei più semplici. A giudicare dalle cronache del vertice in Alaska, infatti, sembra quasi che la Guerra Fredda non sia mai esistita. E che l'Occidente non l'abbia vinta. Effetto della regia scenica, si dirà, nella quale i russi sono maestri. Trump su questo terreno non è certo la prima volta che cede. A Singapore, durante il primo mandato, il presidente scambiò una stretta di mano con Kim Jong-un per un successo diplomatico; nel 2018, a Helsinki, arrivò persino a sconfessare l'Fbi pur di compiacere il Cremlino. Ad Anchorage è parso persino più debole. Incapace di resistere al bagaglio di lusinghe riservatogli dal suo interlocutore. Fermarsi, però, all'anatomia coreografica dell'incontro sarebbe un errore. Ed è quello nel quale sono incorsi molti dei critici di Trump. Perché mai come in questo caso la forma è anche sostanza. La potenza della propaganda putiniana, infatti, almeno da venticinque anni punta a far dimenticare come sia finita la Guerra Fredda, per accreditare la Russia come superpotenza, rendendo l'epilogo del "secolo breve" una parentesi. Putin, infatti, ha un disegno preciso, che affonda le sue radici nella fine dell'Urss: lavare l'onta del 1991 e inoculare in Occidente l'idea che non siano le autocrazie a essere fragili, ma le democrazie. Non è un caso che a veicolare questa illusione ottica siano un ex agente del KGB cresciuto nella Ddr e un ministro degli Esteri come Lavrov, tanto fiero dei vecchi apparati da esibire ancora la maglietta con la scritta Cccp. Né è un caso che la prima dichiarazione di Putin in Alaska sia stata che non ci sarà pace in Ucraina senza risolvere le cause primarie del conflitto: liquidare la statualità di Kiev, considerandola un'invenzione dell'Occidente. È un classico del putinismo, che chiarisce bene la vera posta in gioco nella guerra ucraina. E dietro questa visione può anche scorgersi la sostanziale continuità delle élite russe. Putin e Lavrov rappresentano l'ultimo lembo di un filo rosso che lega gli zar, il comunismo e la Russia di oggi. Il Generale De Gaulle, ai suoi tempi, definì il Pcus un "Pietro il Grande collettivo". Oggi comprendiamo meglio cosa volesse intendere. È la mistica della "Santa Madre Russia" che attraversa epoche e culture diverse, senza spegnersi con la caduta di questo o quel regime. Anche la celebre frase di Putin del 2007 - "la fine dell'Unione Sovietica è stata la più grande catastrofe geopolitica del XX secolo" - non va letta come una nostalgia dei soviet, ma come la base ideologica di un progetto di riconquista della grandeur perduta. Ecco perché il vertice in Alaska, per i russi, è stato soprattutto un rituale di riscatto simbolico. Putin ha potuto presentarsi sul suolo americano da pari a pari, e Trump gli ha concesso ciò che più desiderava: la possibilità di riproporre al mondo il mito della centralità russa. Non è poco. I leader europei lo sanno. Ed è per questo che non possono consentire a quel rituale di tradursi in conseguenti decisioni politiche. Se mostrano maggiore risolutezza rispetto al passato, a partire dalle "garanzie di sicurezza" chieste per Zelensky, è perché il pericolo è tangibile.
Al tempo di nuovi equilibri mondiali, l'ambizione imperiale di Mosca è una minaccia reale. Se non la si ferma in Ucraina, in un'Europa che deve ancora imparare a contare prima su sé stessa che sugli americani, potrebbe dilagare.