Vicesindaco di Azzano ricoverato a New York per Covid: "Ecco cosa è successo"

Il conto finale è stato di 100mila dollari per 17 giori di ricovero. “Hamburger e patatine fritte, e pizza con il ketchup in terapia intensiva. Non potevo mangiarli, ho perso 12 chili”

Vicesindaco di Azzano ricoverato a New York per Covid: "Ecco cosa è successo"

Terribile avventura quella vissuta dal vicesindaco di centrodestra ad Azzano San Paolo, Francesco Persico, ricoverato a New York per coronavirus. Come riportato da Il Corriere, il primo cittadino del comune in provincia di Bergamo, benché confuso a causa della febbre a 41, si rendeva perfettamente conto di trovarsi in una stanza d’albergo nella Grande Mela.

Il racconto del vicesindaco di Azzano

Ricorda molti particolari di quel giorno, la corsa all’ospedale Mount Sinai West, i due infermieri del 911 bardati con tute, mascherine e visiere, e la prima domanda fattagli una volta arrivato nella struttura ospedaliera: “Con che cosa paga?”. Subito Francesco Persico, elettricista della Automazione 2001, ha recuperato il foglio dell’assicurazione fatta dalla sua azienda che teneva religiosamente nello zaino. Si trovava in un ospedale a 6mila chilometri dalla sua abitazione, con moglie e figlia di tre anni a casa, ricoverato con il coronavirus e un conto altissimo da pagare: oltre 100mila dollari. Persico ha chiesto a quanto sarebbe ammontato il costo del ricovero e ha poi raccontato: “Centomila dollari di ospedale più 2.500 per gli 800 metri in ambulanza. Per fortuna, e ringrazio la mia azienda, ero assicurato ma in quel momento il timore era forte anche a casa, con il costo di 8.000 dollari al giorno in terapia intensiva”. Tra l’altro, ma questo lo ha scoperto in seguito, nel documento c’era una piccola clausola: “L’assicurazione non avrebbe pagato se l’Oms avesse dichiarato la pandemia globale. La mia fortuna è essere stato ricoverato prima”. Fosse successo dopo, avrebbe dovuto pagare di tasca sua.

All’inizio era stato ricoverato in una camera singola, isolato da tutti gli altri pazienti. Solo dopo, quando il suo respiro ha cominciato a diventare difficoltoso, è stato trasferito nel reparto di terapia intensiva con la maschera d’ossigeno. Ancora non ha capito se aveva contratto il virus in Italia o una volta arrivato negli Stati Uniti. Si parla di otto mesi fa, era solo l’inizio e tutto era ancora molto confuso.

Era il paziente zero dell'ospedale

Persico era partito dall'Italia il 28 febbraio per la Despe demolizioni, insieme a un collega, due elettricisti e due meccanici, per raggiungere New York e costruire un grattacielo. Dopo circa una settimana era iniziata la febbre e sembrava una semplice influenza. Nonostante la Tachipirina, non accennava però a voler passare anzi, erano iniziati anche i mal di testa e i capogiri. Quando poi la sua salute è migliorata, insieme ai colleghi è andato anche ad assistere a una partita di basket. Il giorno seguente però la febbre è salita e, sia un collega che l’albergo hanno avuto i primi sospetti. Tanto che l’hotel non ha voluto mandare il proprio medico e il gruppo di italiani ha quindi chiamato il 911. Persico si è definito “il paziente zero in quell’ospedale. Non erano preparati: ho aspettato mezz’ora sull’ambulanza, il personale ha allestito uno spazio lì per lì, mi hanno trasferito nel reparto di malattie infettive. Da me entravano protetti ma poi, li vedevo dal vetro, si cambiavano in corridoio. Mi hanno trasferito in terapia intensiva, con la maschera facciale dell’ossigeno. Devo dire che ho ricevuto molte attenzioni, se penso alle immagini di Bergamo con i tutti quei pazienti tutti insieme perché non c’era posto”.

Hamburger e patatine fritte in ospedale: ha perso 12 chili

Durante la sua degenza in ospedale, dove è stato ricoverato il 9 marzo e dimesso il 25 marzo, ha perso ben 12 chili. Il motivo lo ha raccontato lui stesso: “Hamburger e patatine fritte, e pizza con il ketchup in terapia intensiva. Non potevo mangiarli, ho perso 12 chili, appena uscito sono andato al supermercato a comprare del cibo”. Una volta lasciata la struttura ospedaliera, senza essere stato sottoposto al tampone, ha dovuto passare 7 giorni in quarantena in albergo. New York in quei 17 giorni di ricovero era cambiata: prima era una città normale, dopo cominciavano a vedersi gli inizi della pandemia. “Sotto la porta della camera dell’albergo ci hanno infilato un biglietto con scritto che avremmo dovuto andarcene perché chiudevano. Ci siamo spostati e anche nel secondo albergo è successa la stessa cosa. Sono rientrato il 4 aprile, con un volo Alitalia per il rimpatrio dei connazionali” ha raccontato il vicesindaco che è riuscito a fare il primo tampone il 15 aprile a Seriate e il secondo ad Albino, il 22 aprile.

La lontananza dalla propria famiglia è stata forse la cosa peggiore. La moglie si era trasferita dai genitori con la bimba, che ha potuto rivedere il suo papà dopo due mesi. Un papà che, in possesso della delega della Protezione civile, non poteva comunque darsi da fare per aiutare la popolazione. “Rispetto a tante polemiche, non abbiamo nulla da imparare sulla serietà e capacità di gestire l’emergenza. Trump? Beh, alcune uscite come quella sulla candeggina….

Il fastidio più grande è chi prende questo virus alla leggera, i negazionisti. Non ci sono passati, per forza. Ad Azzano in tre mesi abbiamo avuto cento morti” ha concluso il vicesindaco di uno dei paesi maggiormente colpiti dal coronavirus.

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica