
Diritti, identità, partecipazione, welfare, debito: viviamo ancora all'ombra degli anni Sessanta. Anzi: è ben possibile che quel che chiamiamo populismo, soprattutto il populismo di destra, non rappresenti altro che un grande moto di ribellione contro il quadro di valori che cominciò a prendere forma allora, per consolidarsi poi fra la fine del XX e l'inizio del XXI secolo. Ragionare degli anni Sessanta significa così più che mai, crocianamente, occuparsi di storia contemporanea. La riflessione storiografica che Piero Craveri (Torino, 1938 Roma, 2023) ha dedicato all'Italia repubblicana può esser presa a ulteriore dimostrazione della posizione cardine di quel decennio negli ottant'anni che ci separano dalla fine della Seconda guerra mondiale.
Probabilmente il più profondo e completo fra gli studiosi della stagione repubblicana, Craveri è scomparso l'antivigilia di Natale del 2023. Qualche settimana fa a Napoli, nel «suo» Ateneo, l'Università Suor Orsola Benincasa, un convegno ne ha ricordato l'opera storiografica e civile. La formazione politica di Craveri, nato nel 1938, cominciò durante gli anni Cinquanta negli ambienti della cultura laica e progressista, dall'associazionismo goliardico universitario al «primo» partito radicale, formatosi nel 1955 da una scissione liberale, su riviste come Il Mondo di Mario Pannunzio e Nord e Sud di Francesco Compagna. Le urgenze psicologiche e civili caratteristiche di quella cultura avrebbero segnato tutta la sua storiografia: come mostrano anche i titoli dei suoi libri (L'arte del non governo, La democrazia incompiuta), si trattava soprattutto di comprendere che cosa in Italia non funzionasse, di misurare la distanza che separava il Paese, in negativo, dai grandi modelli della liberaldemocrazia occidentale.
In virtù di questa sua appartenenza generazionale e politica, il giovane Craveri non poteva che riporre grandi speranze nella svolta progressista che si andava molto faticosamente preparando già dalla fine degli anni Cinquanta e che si sarebbe infine compiuta fra il 1962 e il 1964 con la nascita della nuova maggioranza di governo cosiddetta di centro sinistra, includente i socialisti ed escludente i liberali. Quella svolta, con cui la Penisola anticipava per tanti versi il terremoto culturale globale degli anni Sessanta, forniva la grande occasione per avviare un ambizioso processo riformistico che proiettasse finalmente il Paese nella modernità e seppellisse una volta per tutte l'Italia «alle vongole», provinciale, clericale, cialtrona e bigotta. Molti anni più tardi, nel primo grande libro dedicato all'Italia postbellica, La Repubblica dal 1958 al 1992 (UTET), un volume di quasi mille pagine pubblicato nel 1995, Craveri avrebbe trasformato questo suo legame biografico col centro sinistra in una prospettiva storiografica, leggendo quella stagione soprattutto come uno scontro fra progressisti «buoni» e conservatori «cattivi» dal quale le forze dell'immobilismo sarebbero infine uscite trionfanti.
Nelle sue opere successive quest'interpretazione, benché mai abbandonata del tutto, si sarebbe tuttavia venuta facendo sempre più sfumata e articolata. Ed è pure per questa ragione che il suo percorso intellettuale è così interessante: perché mostra il passaggio da una lettura politica e contemporanea degli anni Sessanta a una loro storicizzazione. Probabilmente anche a motivo della consapevolezza acquisita lavorando alla magistrale biografia di Alcide De Gasperi uscita col Mulino nel 2006, nei libri degli ultimi quindici anni Craveri ha notevolmente indebolito il nesso fra sinistra e modernità da un lato, destra e Italia alle vongole dall'altro, che nel 1995 appariva alquanto rigido. Il convergere di democristiani e socialisti in una nuova maggioranza di governo, all'inizio degli anni Sessanta, è rimasto un grande laboratorio di riforme e modernità. Ma il suo fallimento e le sue conseguenze negative sono stati ricondotti in misura minore agli ostacoli esterni, conservatori, che l'hanno frenato, e in misura maggiore ai suoi limiti intrinseci.
Quel che si è venuto facendo sempre più chiaro agli occhi di Craveri, in buona sostanza, è stata l'assenza strutturale di condizioni politiche che consentissero al centro sinistra di condurre una politica economica virtuosa. Assenza dovuta al grave ritardo culturale del Partito socialista; all'indisponibilità dei comunisti e soprattutto della Cgil, che rendeva impossibile una politica dei redditi come quella immaginata da Ugo La Malfa; alla necessità per Aldo Moro l'artefice principale della nuova maggioranza di tenere unita la Democrazia cristiana per conservarla al centro di un sistema che subordinava le istituzioni pubbliche al controllo dei partiti politici e le esponeva alla loro occupazione. Era la deriva che De Gasperi aveva previsto con grande lucidità e disperatamente cercato di scongiurare.
In queste condizioni politiche lo sforzo riformistico immaginato dal centro sinistra, il processo di modernizzazione a trazione pubblica, non poteva che convertirsi nell'uso sistematico del bilancio dello Stato a fini di manutenzione del sistema partitocratico e costruzione del
consenso. Volgeva così al termine la stagione virtuosa del miracolo economico e si ponevano le basi dei problemi di finanza pubblica che sarebbero esplosi alla fine degli anni '80, e le cui conseguenze ci tormentano ancora oggi.