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"Costretti a mangiare carne umana", il disastro aereo della Ande

Nell'autunno del '72 un aereo militare affittato come charter precipita sulle Ande a causa di errore di calcolo dei piloti. Sarà l'inizio di una delle più sconcertanti storie di sopravvivenza dei nostri tempi, nota come "El milagro de los Andes"

"Costretti a mangiare carne umana", il disastro aereo della Ande

Un piccolo bimotore a elica dell'impoverita Fuerza Aérea Uruguaya, un Fokker F27 che in assenza di frequenti bellicismi delle Americhe meridionali viene impiegato come charter per passeggeri civili, è impegnato a fare lo slalom tra le altissime cime della Cordigliera andina. È il 13 ottobre del 1972, e il piccolo aereo da trasporto di fabbricazione olandese, che misura appena venticinque metri di lunghezza, ospita a bordo quaranta passeggeri civili - la metà sono giocatori di Rugby della Old Christians Club - oltre a cinque membri d'equipaggio militare: il colonnello Ferradas, il copilota, tenente colonnello Lagurara, un tenente impiegato come ufficiale di rotta, e due sergenti, rispettivamente un assistente di volo e un motorista. Non è progettato per sostenere elevate altitudini in condizione atmosferiche sfavorevoli. Per quanto possa raggiungere una quota di tangenza di oltre ottomila metri, è per questo il Fokker vola basso, seguendo una rotta minuziosa che, per portare l'aereo a destinazione a Santiago del Cile (dopo uno scalo imprevisto per le condizioni meteorologiche a Mendoza, Argentina), cerca e trova i passi e valichi tra le alte montagne innevate.

Volare bassi tra le montagne è la scelta più prudente, ma anche la rotta più complessa da seguire sulle mappe, per un aereo che, oltre ad avere la quasi totalità di comandi interamente manuali, offriva all'equipaggio una strumentazione di bordo "essenziale".

L'equipaggio commette alcuni errori di calcolo nel tracciare, o seguire, la rotta. E quando il comandante è certo di trovarsi a una mezz'ora di volo circa da Santiago, approccia una graduale discesa verso terra, mentre una turbolenza sorprende il piccolo bimotore che cade in un vuoto d'aria e perdendo un centinaio di metri di altitudine in pochi secondi, si ritrova a volare alla cieca, avvolto nella fitta nebbia e nelle nuvole basse, in prossimità delle alture rocciose. Ferradas e Lagurara tentano di recuperare quota spingendo i motori Rolls-Royce Dart alla massima potenza. Ma prima di uscirne, l'ala destra del Fokker tocca una parete rocciosa. Staccandosi completamente e privando l'aereo di uno dei due motori. Il Fokker carambola tra le rocce, perdendo l'ala sinistra e la coda, che si trancia di netto e porta via con sé alcuni passeggeri. L'ufficiale di rotta e il sergente addetto all'accoglienza dei passeggeri vengono risucchiati dall'abitacolo. Volano via.

La carlinga del Fokker precipita come un siluro lanciato da un aereo su una spianata. Scivola veloce sulla neve fresca, per due chilometri, tra le urla dei passeggeri terrorizzati, come fosse un grosso bob. Si ferma solo dopo aver impattato con cumulo di neve solidificata dalle rigide temperature. Il velivolo, registrato come 571, si ferma a una quota di 3.657 metri nei pressi del vulcano Tinguiririca. Ancora in territorio argentino. I superstiti invece, vittime dell'errore di calcolo e della strumentazione sfasata a causa dell'impatto, si convinceranno di essere a un'altitudine di 2.133 metri in territorio cileno. Il tenente colonnello Lagurara infatti, prima di morire sosterrà di aver "superato Curicò".

Solo in seguito verrà supposto un errore umano dovuto e alla negligenza dei piloti, che non calcolarono i tempi di volo, oppure a un possibile malfunzionamento del sistema Vor (impiegato prima dell'avvento del Gps, ndr) originato da interferenze magnetiche provocate dalle perturbazioni. Queste avrebbero fatto scattare "erroneamente" la segnalazione dell'avvenuto passaggio sulla verticale di Curicó - come avrebbe più volte ripetuto il secondo pilota prima di morire poco dopo l'impatto per le lesioni riportate.

Tra l'impatto e la discesa muoiono dodici persone, compreso il comandante. Dei trentotto superstiti, alcuni moriranno a causa delle ferite riportate durante l'impatto. Altri in seguito a una valanga. Altri per denutrizione e fatica - che a oltre tremila metri di altitudine con temperature inferiori a meno 30 gradi centigradi la notte si fa sentire sul corpo umano, anche il più atletico e preparato.

I soccorsi così "vicini" e l'odissea sfociata nel cannibalismo

Non appena la torre di controllo di Santiago perse ogni contatto con il Fokker, venne messo in allerta il Servicio Aereo de Rescate (Sar) dell'aeroporto di Los Cerrillos. Analizzate le registrazioni delle ultime comunicazioni avvenute tra la torre di controllo cilena e il velivolo uruguaiano, i comandanti del Sar ipotizzarono immediatamente un errore di rotta e, ampliando l'area delle ricerche a una vasta zona sulle Ande a nord del passo del Planchón, fecero decollare gli elicotteri nel tentativo di localizzare il relitto e recuperare eventuali superstiti.

Sebbene la zona delle ricerche fosse esatta, la visibilità ridotta e la livrea chiara del velivolo che si mimetizzava perfettamente nella neve, impedirono alle squadre di soccorso aeree e alle guide alpine del corpo dei Carabineros cileni di localizzare il relitto, nel quale vissero tra atroci stenti e sofferenze quei superstiti che dopo aver terminato le povere razioni di cioccolata e marmellata, furono costretti all'atto estremo di nutrirsi della carne umana dei loro compagni morti.

Il 21 ottobre le autorità cilene decisero di interrompere ufficialmente le ricerche. Mentre quelle finanziate privatamente dai familiari proseguirono, e si spinsero a pochi chilometri dalla reale posizione dei superstiti, che sopravvissero ben 72 giorni. Fino al 23 dicembre, quando la spedizione di due passeggeri che decisero di attraversare le Ande per cercare aiuto, allertò una seconda volta il Servicio Aereo de Rescate che inviò due elicotteri Bell Uh-1 Iroquois a San Fernando, dove erano giunti - dopo una marcia di 10 giorni per una distanza di 50 chilometri nella neve - Fernando Parrado e Roberto Canessa.

Grazie alle indicazioni di Parrado, che decise di salire sull'elicottero per guidare i soccorsi, quello stesso giorno i resti del Fokker vennero individuati e i primi soccorsi portati ai 14 sopravvissuti. Non essendo possibile il trasporto di tutti quanti i passeggeri, alpinisti e un infermiere vennero lasciati sul posto per prestare un primo soccorso a chi era costretto a passare l'ultima notte nella "carlinga" che aveva chiamato casa per oltre due mesi. Ricoverati in ospedale con "sintomi di insufficienza respiratoria da alta montagna, disidratazione, traumi e malnutrizione", alcuni mostrarono una perdita di anche 40 chili.

Un sasso e una palla ovale per la salvezza

Quando Parrado e Canessa incontrarono sul loro cammino il "primo uomo" al quale chiedere aiuto, sfiniti, al limite della loro capacità fisica, fu un sasso a salvarli. Quello lanciato da un mandriano, Sergio Catalán, che non udendo le flebili parole dall'altra riva del fiume che li separava, scrisse su un foglio di carta un messaggio, lo avvolse intorno al sasso, e lo lanciò a quei due uomini evidentemente provati da un viaggio massacrante. Fu allora che Parrado scrisse con un rossetto per signora che aveva curiosamente con sé: "Vengo da un aereo che è caduto nelle montagne. Sono uruguaiano. Sono dieci giorni che stiamo camminando. Ho un amico ferito. Nell'aereo aspettano 14 persone ferite. Abbiamo bisogno di andarcene velocemente da qui e non sappiamo come. Non abbiamo da mangiare. Siamo debilitati. Quando ci vengono a prendere? Per favore, non possiamo più camminare. Dove siamo?".

Erano nei pressi di Los Maitenes, in Cile. La corsa del mandriano per raggiungere la prima caserma di Carabineros per avvertirli del suo straordinario incontro e l'intervento di altri mandriani incontrati sulla via, che si affrettarono a raggiungere i due viandanti per rifocillarli e prestar loro il primo soccorso, fu decisivo.

Nel 2012 i superstiti di questa straordinaria avventura si riunirono sul campo di rugby per la famosa partita che avrebbero dovuto giocare contro cileni dell’Old Grangonian Club quaranta anni prima.

In quella, e in molte altre occasione, portando omaggio ai compagni che persero la vita su quella montagna, ricordarono quanto fu importante lo spirito di squadra in quei terribili 72 giorni di sopravvivenza.

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