Chiariamolo subito. Non pretendiamo che professori, insegnanti e bidelli rischino la vita. Chi soffre di malattie potenzialmente fatali in concomitanza con il Coronavirus deve restare a casa. Sospettiamo però che dietro il diluvio di domande d'esenzione indirizzate ai dirigenti scolastici non si celino solo pericolose patologie, ma anche schiere di debosciati attratti dall'idea di trascorrere altri mesi sul divano di casa anziché in cattedra. Il loro comportamento non può essere giustificato con il consueto richiamo all'italica furbizia. Atteggiamenti come questi dopo una guerra costata la vita di oltre 35mila cittadini rappresentano una miseria morale inqualificabile. Una miseria ancora più esecrabile visto che questi insegnanti hanno il compito di educare e formare i nostri figli. Un compito che non solo viene eluso, ma addirittura ribaltato, offrendo agli studenti il nefasto esempio di finti educatori pronti a trasformarsi in perdigiorno e imbroglioni. E a peggiorare il tutto s'aggiunge l'appoggio dei sindacati pronti, anche stavolta, a garantire coperture e giustificazioni a questi scioperati.
Ma a rendere ancora più oltraggiose le diserzioni di questi scansafatiche e dei loro tutori s'aggiunge la mancanza di rispetto verso chi, nei momenti più duri della pandemia ha mostrato il migliore volto dell'Italia. Il volto dei 176 medici morti per avere scelto di non abbandonare i loro pazienti. Ma anche quelli di tutti i lavoratori che nelle settimane più nefaste sono rimasti ai loro posti mettendo in gioco vita e salute anziché inventarsi codarde giustificazioni. Noi, in quei giorni, ne abbiamo incontrati alcuni. E non riusciamo a scordarne l'esempio.
A Nembro, buco nero della pandemia, sgobbava Sara Bergamelli un'insegnante 29enne che, a marzo, passava le giornate a portare cibo e medicine ai malati in isolamento e la sera, riposta la casacca della Protezione civile, si metteva al computer fino a tarda notte per garantire le lezioni on line alla sua classe. All'ospedale di Cremona c'era Carla Maestrini, la caposala della rianimazione che assediata dagli incubi per i troppi morti non dormiva più, ma continuava tra le lacrime a mandare avanti il reparto. Per non parlare dei medici e degli infermieri in pensione o di quelli freschi di laurea che si presentarono volontari in quell'inferno. All'ospedale di Bergamo facemmo conoscenza con il primario della rianimazione dottor Fabrizio Fabretti di cui non scordiamo l'angosciante confidenza. «Per la prima volta - ripeteva - non so perché i miei pazienti vivano o muoiano e quali medicine li salvino... ma non lascio nessuno indietro». Al San Carlo Borromeo di Milano ascoltammo il dramma di Francesca Cortellaro, primario del pronto soccorso costretta a correre con il telefonino da un letto all'altro per consentire agli agonizzanti di mandare un ultimo saluto a figli e parenti.
E difficilmente scorderemo l'irrefrenabile entusiasmo dei volontari di Bergamo che, guidati da Daniele Rizzini, Direttore sanitario dell'Ana (Associazione nazionale alpini), misero in piedi un ospedale in due settimane. Di questi e di tanti altri italiani devono ricordarsi anche gli insegnanti intenti a compilare le loro meschine richieste di esenzione. E vergognarsene.
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