Afghanistan in fiamme

La forza necessaria

L'ultima manche del "Grande gioco" si chiude oggi, rien ne va plus. E il finale miserabile della ritirata occidentale dall'Afghanistan lascia una scia brillante e fumosa al tempo stesso, come quella di un razzo

La forza necessaria

L'ultima manche del «Grande gioco» si chiude oggi, rien ne va plus. E il finale miserabile della ritirata occidentale dall'Afghanistan lascia una scia brillante e fumosa al tempo stesso, come quella di un razzo. Guardiamo il fiammeggiante disastro della strategia americana, ma non ci interroghiamo sulla polvere di dubbi che resta nell'aria, di cui la pilatesca risoluzione Onu di ieri, che non ottiene le «safe zone» per proseguire l'evacuazione dei civili, è la prima avvisaglia.

Della pochezza indifendibile dimostrata dalla leadership Usa, naufragata in un Afghanistan immaginario e mai capito, trattato assurdamente come fu gestita la Germania post-nazista, si è già scritto. Si chiude l'era dell'interventismo e dell'esportazione della democrazia in franchising, si torna all'isolazionismo. Ma la domanda è se esiste una proposta alternativa. In sostanza, chi oggi si dispera per i civili afghani terrorizzati, le donne segregate e il ritorno della sharia, cosa avrebbe fatto nel 2001, quando i civili afghani erano terrorizzati, le donne segregate, la sharia in vigore e Bin Laden abbarbicato a Tora Bora?

È in questo punto che a sinistra la coerenza fa perdere le sue tracce. Per questo Giornale fu doveroso l'intervento militare, ma è stata rovinosa la transizione e vigliacca la fuga, che tradisce il futuro degli afghani e la memoria dei militari caduti; chi invece manifestava contro Bush guerrafondaio e accusava l'Occidente di ingerenza inaccettabile, oggi giudica inaccettabile la fine dell'ingerenza. Non funziona: o fu giusto intervenire per porre fine a un regime feroce e ridare speranza a una popolazione, o è giusto lasciare il Paese all'autogestione anche a costo del ritorno dei talebani.

È un punto nodale, da cui discende il rischio peggiore: sul terreno del caos e della disillusione può rifiorire un pacifismo utopistico che mai come oggi - nel mondo multipolare su cui la Cina ha mire egemoniche - è un lusso pericoloso. Lo scrittore ex marine G. Michael Hopf scrive: «Tempi difficili creano uomini forti. Uomini forti creano tempi prosperi. Tempi prosperi creano uomini deboli. Uomini deboli creano tempi difficili». E in tempi difficili è ancora più naïve pensare di trattare con dei fondamentalisti solo affidandosi al dialogo della diplomazia e all'appeasement.

La realtà è che purtroppo l'uso della forza continuerà ad essere l'unica - estrema, certo - maniera per fare cadere regimi sanguinari e combattere organizzazioni terroristiche (come insegna Israele). Ma anche e soprattutto per imporre e mantenere la pace e il rispetto dei diritti. Davvero crediamo che i talebani «rispetteranno gli impegni sulle evacuazioni»? Con chi mozza mani, Onu e Unione europea, che non muove divisioni ed è dunque destinata a parlare al vento come Pio XII con Stalin, possono fare poco. A Kabul i ragazzi ascoltavano musica e le ragazze studiavano solo grazie a un intervento militare esterno. Ricordiamocelo quando ci troveremo di fronte al prossimo regime liberticida e al solito bivio tra fare qualcosa o girarsi dall'altra parte.

Cosa che in Venezuela e a Hong Kong, per esempio, ci riesce benissimo.

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