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Immobilismo congenito

Ieri l'ex-Ad di Edizione, Gianni Mion, ha ammesso nel processo per il crollo del ponte Morandi di aver saputo già nel 2010, cioè ben otto anni prima del dramma, che l'infrastruttura aveva un difetto di progettazione che la rendeva poco sicura

Immobilismo congenito

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Ieri l'ex-Ad di Edizione, Gianni Mion, ha ammesso nel processo per il crollo del ponte Morandi di aver saputo già nel 2010, cioè ben otto anni prima del dramma, che l'infrastruttura aveva un difetto di progettazione che la rendeva poco sicura. Poi l'usura del tempo ha fatto il resto. Quelle parole ricordano le tante tragedie annunciate che costellano la storia del Belpaese. Del resto che qualcosa non andasse nel sistema di viabilità di Genova lo aveva capito anche il sottoscritto: nel 2014 durante il mio mandato da senatore presentai un'interrogazione insieme al collega Maurizio Rossi in cui rimarcavamo l'urgenza di realizzare la circonvallazione nel capoluogo ligure, la cosiddetta Gronda, per alleggerire l'uso del ponte «che - scrivevamo - ha gravi problemi». Di denunce del genere negli anni successivi ne furono presentate tante ma non se ne fece niente perché la Gronda è sempre stata considerata dai grillini - all'epoca in auge - come una mezza bestemmia.

Qui nessuno vuole mettere la croce sulle spalle di qualcuno, ma vale la pena riflettere su quegli strani meccanismi che condannano l'Italia all'immobilismo, ad una sorta di fatalismo che ci fa attendere inermi «l'evitabile». È un capitolo che, purtroppo, si può scrivere per ogni tragedia. E le ragioni sono le più diverse. L'idiosincrasia che una certa sinistra nutre da sempre verso le grandi opere: il Pci era contrario all'autostrada del Sole come quarant'anni dopo il Pd è diffidente verso il Ponte di Messina. L'ambientalismo trasformato in una sorta di ideologia per cui se un sindaco come quello di Ravenna immagina di intervenire per ridurre la riproduzione delle nutrie, colpevoli con le loro tane di indebolire gli argini del Po o dei suoi affluenti, si becca una lunga serie di minacce di morte. O ancora l'uso sconsiderato dell'«abuso d'ufficio» da parte dei magistrati, un reato per il quale vengono condannati solo l'un per cento degli imputati ma che nel contempo istilla negli amministratori il «terrore della firma»: per cui un sindaco, il presidente di un consorzio o un Governatore di Regione ci pensano due volte prima di dare un appalto, che si tratti di una nuova opera o solo della manutenzione di una vecchia poco importa. E il fatto grave è che l'inerzia della mano pubblica offre un alibi pure ai privati: se non si muove lo Stato perché dovrebbero muoversi loro? Per cui le concessioni autostradali si trasformano in una sinecura che prevede diritti e non oneri, profitti e non investimenti.

Di ragioni se ne potrebbero aggiungere altre mille, il risultato però è uno solo: il nostro Paese è condannato alla paralisi. E sono un paradosso gli alambicchi che ci facciamo tutti i giorni sul perché non riusciamo a spendere i fondi del Pnrr, sul perché non riusciamo a mettere a terra un progetto: non spendiamo perché non siamo abituati a spendere, perché nel tempo abbiamo creato regole e comportamenti che vanno esattamente nel senso opposto.

Solo che così ci dimentichiamo colpevolmente - fino alla prossima tragedia - che la modernizzazione delle infrastrutture e il progresso sono parenti stretti della sicurezza.

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