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Quei finti paladini dell'antimafia tra indagini, misteri e figuracce

Eroi della lotta a cosa nostra, che finiscono nelle maglie della giustizia. Accusati di ciò che pubblicamente combattevano

Quei finti paladini dell'antimafia tra indagini, misteri e figuracce

Potere, assunzioni, consulenze e favori ad amici e familiari. False minacce per accreditarsi ancora di più nella trincea dell’antimafia. Una lista di giudici, amministratori giudiziari, politici, personaggi delle istituzioni tutti attorno ad un cerchio magico. Il fronte dell’antimafia in Sicilia sembra essere in una crisi irreversibile: connivenze dietro il vessillo dell’antimafia hanno scandito il tempo di questi anni nell’Isola. Un paradosso della legalità, che emerge a più riprese in numerose inchieste a carico dei paladini della giustizia. Una patente di perbenismo ed estraneità dei fatti ai poteri criminali che si è sbriciolata come un castello di sabbia attorno ad un cerchio magico fatto di nomi e potere. Per alcuni magistrati non ci sono molti dubbi, la pratica sulla “legalita” a volte in Sicilia è stata usata strumentalmente per la conquista di potere. Insomma: i personaggi della legalità si ponevano come la ‘nuova via’ da seguire rispetto alla vecchia egemonia affaristico mafiosa siciliana. Ma in molti casi a quanto pare è stato solo un bluff.

Le Stelle supernova della lotta antimafia

Eroi siciliani che si aggrovigliano nella rete della giustizia. Il paradosso di storie politiche e di vita, accusati di delitti che a spada tratta combattevano pubblicamente. Stiamo parlando di alcuni personaggi del dream team della legalità in Sicilia. L’ultimo ‘infortunio’ processuale della squadra antimafia è accaduto ad Antonio Candela.

Un nome che probabilmente superato lo stretto di Messina non suscita nessuna attenzione mediatica. Il capo condominio della sanità in Sicilia è stato il coordinatore della task force sull’emergenza Covid nell'Isola. Gli inquirenti di Palermo proprio in questi giorni hanno confermato gli arresti domiciliari.

Lui insieme ad altri nomi lustri nell’Isola sono stati indagati per corruzione: 260 mila euro a quanto pare sono le tangenti intascate. L'ex manager della sanità in Sicilia è uno dei dieci arrestati di una maxi inchiesta della procura e del comando provinciale della Guardia di finanza di Palermo che ha svelato un sistema di mazzette attorno a degli appalti della sanità siciliana.

Candela è stato il direttore generale dell’Asp Palermo. Un nome fortemente voluto dall’ex governatore Rosario Crocetta, nel 2016 è stato decorato dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella dopo che ha smascherato la truffa in merito a delle forniture di pannoloni nell’azienda sanitaria di Palermo. I suoi esposti gli sono costati delle minacce, tanto che al paladino della giustizia gli era stata garantita la scorta. Ma Candela è solo l’ultima stella cadente del firmamento dell’antimafia siciliana.

Rosario Crocetta e la sua ‘rivoluzione’

Il “rivoluzionario” Rosario Crocetta del partito democratico che ha pensato di cambiare vita e vivere la sua pensione in Tunisia continua ad essere protagonista di vicende giudiziarie. Proprio lui che nei suoi comizi da sempre ha lanciato parole di fuoco a mafiosi e personaggi del maloaffare, nel novembre 2019 i gup di Palermo lo hanno rinviato a giudizio per corruzione. A quanto pare il suo movimento Riparte Sicilia pare abbia avuto un finanziamento di circa 5 mila euro dall’armatore trapanese Ettore e Vittorio Morace. Proprio l’anziano Vittorio Morace è malato, dunque il gup di Palermo ha dichiarato per lui il non luogo a procedere. L' armatore, capostipite della famiglia di armatori proprietaria della Liberty Lines, non è ritenuto in grado di partecipare coscientemente al processo. Anche lui era finito sotto accusa per corruzione insieme, tra gli altri, al figlio Ettore, a una serie di politici tra cui oltre che l'ex governatore siciliano e ad alcuni funzionari regionali. Ma l'ex paladino della giustizia che per anni ha avuto la scorta, è anche indagato dalla procura di Caltanissetta per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e al finanziamento dei partiti nella seconda trance dell’inchiesta di Antonello Montante.

Il "sistema" Montante

L’ex vicepresidente di Confindustria con delega alla legalità tempo fa è stato condannato in primo grado a 14 anni. Proprio la delega per la Legalità, è stata istituita nel 2008 con la Presidenza di Emma Marcegaglia e riconfermata nel 2012 dal Presidente Giorgio Squinzi. L’imprenditore siciliano, diventato simbolo della lotta alla mafia e salito ai vertici di Confindustria nazionale, ma è stato coinvolto in vari scandali e arrestati, e tuttora assoggettato all’obbligo di dimora in quel di Asti.

Antonello Montante veniva definito “Il boss”. Non il capo di Confindustria ma “Il boss”. Anni fa, nonostante le sue inchieste avviate e i primi scandali giornalisti, l’ex paladino antimafia a quanto pare non aveva perso la sua verve. Anzi, era divenuto più potente. Il cavaliere del Lavoro prima di finire in manette, negli anni precedenti aveva lasciato la carica di consigliere dell’Agenzia per i beni confiscati alla mafia. Una decisione sofferta. Maturata dopo un frenetico giro di consultazioni. Poi si era sospeso anche da presidente di Sicindustria. Cariche che a quanto pare intralciavano i suoi interessi. Non essendo più in “prima linea”, secondo gli inquirenti poteva “lavorare” molto meglio “da dietro”.

Montante è stato condannato in primo grado per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo a sistema informatico. “Montante è stato il motore immobile di un meccanismo perverso di conquista e gestione occulta del potere che, sotto le insegne di un’antimafia iconografica, ha sostanzialmente occupato, mediante la corruzione sistematica e le raffinate operazioni di dossieraggio, molte istituzioni regionali e nazionali”. Così scrive il Gup di Caltanissetta, Graziella Luparello, nelle motivazioni della sentenza che ha condannato l’ex presidente di Confindustria Sicilia. In questa inchiesta tra intercettazioni e indagini è tirato in ballo anche l’ex senatore Beppe Lumia. Regista della candidatura dell’ex governatore Crocetta. Lumia ha ricoperto il ruolo di presidente della commissione parlamentare antimafia a Roma. Ma al momento resta illeso a livello giuridico.

La tangente al pasticciere

Ma il cerchio magico investe anche il modo paradossale l'areoporto di Palermo intitolato a due vittime della mafia: Falcone e Borsellino.

Predicava la necessità di combattere il “pizzoimposto da cosa nostra agli esercenti palermitani, ma poi lui stesso lo chiedeva. Stiamo parlando dell'ex presidente della Camera di Commercio di Palermo: Roberto Helg, condannato in appello a 3 anni e 8 mesi di carcere. L’amico di Montante ed ex vicepresidente della Gesap (la società che gestice lo scalo di Palermo) ha chiesto una tangente da 100 mila euro ad un imprenditore per non ostacolare il rinnovo della concessione di uno spazio di vendita nell’aeroporto Falcone e Borsellino. “Perché se non si fa come dico io sei fuori”, diceva l’ex presidente che non ha mai mancato un convegno sull'antimafia. Ad inchiodarlo fu il registratore che proprio l’imprenditore Santi Palazzolo si era messo addosso, di intesa con i carabinieri, quando fu convocato per la consegna del denaro negli uffici della Camera di commercio di Palermo.

Antimafia contro Antimafia

Chi punta il dito contro la vecchia antimafia è Claudio Fava. Giornalista ex deputato nazionale ad oggi deputato regionale del gruppo Misto, figlio di Giuseppe Fava, illustre vittima di cosa nostra. Il lavoro di Claudio Fava all’Assemblea Regionale Siciliana sta scandendo il tempo nei palazzi, attraverso la commissione antimafia. Lui è il presidente.

Numerose le inchieste che hanno puntato il dito contro i personaggi dell’antimafia. Una relazione è stata fatta per il “sistema montante”.

Al termine di centinaia di ore di audizioni e di migliaia di pagine di documenti acquisiti dall’autorità giudiziaria e dall’amministrazione regionale, resta la preoccupante consapevolezza che molti sapessero e – pur senza essere parte di quel sistema – abbiano taciuto”, scrive la commissione presieduta da Claudio Fava in una relazione lunga più di 120 pagine.

Fava accende i riflettori anche sull’ex presidente del parco delle Madonie Giuseppe Antoci e il suo attento mafioso del 2016. "Delle tre ipotesi il fallito attentato mafioso con intenzioni stragiste appare la meno plausibile". Scrivono i componenti della commissione sul fallito attentato dell'ex presidente insignito dall’onorificenza anche lui da Sergio Mattarella. I passi principali della conclusione della commissione guidata da Claudio Fava all'Ars sono: "È impensabile che di un attentato di siffatta gravità nulla sapessero (stando ai risultati delle intercettazioni ambientali e al lavoro di intelligence investigativa) la criminalità locale né le famiglie di Cosa Nostra interessate al territorio nebroideo (Barcellona Pozzo di Gotto, Tortorici, Catania). È insolito infine che sull’intera ricostruzione dei fatti permangano versioni dei diretti protagonisti divergenti su più punti dirimenti: gli aggressori erano due o più di due? Sono stati visti mentre facevano fuoco o no? Sono stati visti fuggire nel bosco o no? Sono stati esplosi altri colpi dopo che il presidente Antoci era stato messo in salvo?...

Ma per il procuratore di Messina Maurizio De Lucia: "l'attentato ad Antoci c' è stato, questo è certo e provato".

Antoci, da anni sta combattendo una dura battaglia contro la mafia, specialmente dei pascoli. Intorno la mezzanotte del 17 di maggio del 2016 con la scorta stava rientrando nella propria abitazione. Ad attenderlo lungo una strada statale c’era però un gruppo di fuoco che aveva piazzato grandi sassi lungo l’asfalto per costringere l’auto a fermarsi. Tutto si è svolto in pochi attimi. L’autista che rallenta e i malviventi che iniziano a sparare all’impazzata contro la vettura. A rovinare il disegno degli attentatori sono stati però i poliziotti. Nel dicembre 2014 Antoci aveva ricevuto una lettera anonima in cui veniva minacciato di morte insieme al presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta.

"Tracce della presenza della mafia non ce ne sono" ha detto l’onorevole Claudio Fava, nel corso di una conferenza stampa tenutasi a Palermo, per presentare i risultati della commissione d’inchiesta sulla vicenda. "Non c’è traccia negli accertamenti svolti nei confronti dei 14 indagati, nei rilievi del dna, nelle intercettazioni telefoniche. Non c’è traccia attorno a questa vicenda di persone che possano essere riferite alla mafia, tranne quelle individuate quella sera e che sono state tutte sottoposte a un vaglio severissimo. La ragione per cui si arriva a questo risultato è una conclusione di necessità sulla quale, forse, l’autorità giudiziaria si sarebbe dovuta esercitare di più dal punto di vista dell’esame investigativo. Non c’è traccia negli accertamenti svolti nei confronti dei 14 indagati, nei rilievi del dna, nelle intercettazioni telefoniche. Non c’è traccia attorno a questa vicenda di persone che possano essere riferite alla mafia, tranne quelle individuate quella sera e che sono state tutte sottoposte a un vaglio severissimo. La ragione per cui si arriva a questo risultato è una conclusione di necessità sulla quale, forse, l’autorità giudiziaria si sarebbe dovuta esercitare di più dal punto di vista dell’esame investigativo"

I beni confiscati alla mafia

Ma la paladina antimafia che ha lasciato sbalorditi più di tutti in Sicilia è l’ex magistrato in attesa di giudizio Silvana Saguto. La vicenda giudiziaria dell’ex presidente della sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Palermo è la storia che crea nei siciliani più sconcerto. La procura di Caltanissetta ha chiesto di condannare a 15 anni e 10 mesi Silvana Saguto. E’ accusata di essere stata a capo di un sistema illegale nella gestione dei beni sequestrati alla mafia. L’ex zarina dei beni confiscati alla mafia viene indicata dai pm come "figura centrale di un vincolo associativo stabile” composto da "Saguto, Carmelo Provenzano e Nicola Santangelo“, rispettivamente docente e coadiutore giudiziario e amministratore giudiziario. L’inchiesta sulla gestione dei beni tolti ai clan è esplosa nel settembre del 2015: gli inquirenti hanno ricostruito quello che definiscono come un gigantesco cerchio magico fatto di favori, regali e prebende nell’amministrazione delle ricchezze sottratte ai boss. L’indagine, infatti, squarcia il velo soprattutto sui rapporti della famiglia Saguto. Nel registro degli indagati sono finiti anche l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara, uno dei principali amministratori giudiziari della città di Palermo, e l’ingegnere Lorenzo Caramma, marito della Saguto e collaboratore dello studio di Cappellano Seminara. Tra il 2005 e il 2014 Caramma avrebbe ricevuto dall’avvocato 750 mila euro di compensi per varie consulenze. L’indagine sul sistema Saguto ha colpito anche l’ex prefetto di Palermo, Francesca Cannizzo, sospettata di corruzione e concussione in concorso con la stessa ex presidente della sezione misure di prevenzione. Cannizzo ha occupato la poltrona più alta della prefettura di Palermo fino al novembre del 2015.

"La prova del vincolo associativo stabile emerge dalla frequenza dei rapporti dei soggetti”, ha detto il pm Bonaccorso, spiegando che “emerge un quadro desolante con pubblici ufficiali che hanno tradito la loro funzione. E tra loro ci sono magistrati, colonnelli, il tutto per il perseguimento di interessi privati...”, afferma il pm.

E’ meglio avere dubbi, che false certezze” citava nei suoi libri il premio nobel Luigi Pirandello.

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