Cultura e Spettacoli

Da Londra fino al Tibet la storia del vero 007

Baionette a Lhasa è un libro che ha tre straordinari motivi di interesse.

Da Londra fino al Tibet la storia del vero 007

Baionette a Lhasa (Settecolori, traduzione di Fabrizio Bagatti, pagg. 406, 28 illustrazioni, euro 26) è un libro che ha tre straordinari motivi di interesse. Il primo è il suo protagonista, il capitano, promosso per l'occasione colonnello, Francis Younghusband che guidò l'invasione inglese del Tibet nel 1903. Il secondo è la politica britannica, responsabile di un colossale pasticcio diplomatico militare. Il terzo è l'autore del libro, Peter Fleming. Procediamo per ordine.

Nato in India nel 1863, Younghusband fu l'ultimo grande avventuriero imperiale del suo tempo. Era il concentrato di due opposte eppure intrecciate qualità: lo spirito di servizio e lo spirito d'avventura. La prima richiedeva proprio ciò che l'altra rifuggiva: accettazione degli ordini, rispetto della gerarchia, niente colpi di testa, nessuna individualità. A vent'anni, sottotenente dei King's Dragoon Guards a Meerut, si ritrovò in una vita di guarnigione che prevedeva la sveglia alle cinque, esercitazioni fino alle sette, un paio d'ore di equitazione, colazione, riposo sino alle diciotto, tennis, cena, bordello... Durò un anno, poi ebbe la prima licenza per due mesi: prese due muli, un mulattiere e un cane e si diresse verso il Rohtang Pass, lì dove la catena dell'Himalaya faceva da confine. Fu il viaggio che gli cambiò la vita: «Sarei andato in Tibet, avrei conosciuto quel popolo recluso, sarei diventato un famoso viaggiatore».

A quarant'anni si ritrovò ad aver compiuto esplorazioni che gli erano valse il plauso generale, come l'aver tracciato una nuova strada nel deserto del Gobi, passando per l'allora inaccessibile Mustagh Pass, e che lo avevano fatto diventare il più giovane membro della Royal Geographical Society, ma restava un semplice capitano: ogni spedizione era un'estenuante lotta burocratica, ogni rientro al reggimento una noia e un po' un'umiliazione... L'arrivo come viceré dell'India di Lord Curzon, da lui conosciuto quando questi era ancora un semplice parlamentare, lo colse mentre stava pensando alle sue dimissioni e a un suo ritorno in Inghilterra. Quando Curzon, saldamente installatosi nel ruolo, gli propose infine di andare in Tibet, un territorio che aveva allora le dimensioni dell'Europa occidentale, fisicamente inaccessibile, diplomaticamente isolato, Younghusband pensò che fosse arrivata la sua ora. Si trattava da un lato di verificare il rispetto dei patti fatti con la Cina grazie all'interessamento inglese, e dall'altro di impedire la continuazione di supposti abboccamenti del governo tibetano con i russi. Era la copertura diplomatica necessaria, pensò Younghusband, ma prendersi il Tibet era il vero obiettivo.

Entrato in territorio tibetano nel luglio del 1903, dopo mesi di impasse diplomatica, con i dignitari tibetani che si rifiutavano di discutere se prima gli inglesi non riattraversavano il confine, con la popolazione che si ritraeva man mano che gli inglesi avanzavano, alla fine ci scappò il massacro. Il trattato di pace stilato poco dopo a Lhasa venne successivamente revocato, Younghusband rispedito in India, promosso, ma non più utilizzato. A quarant'anni, questo prototipo vittoriano dell'Impero scoprì che, quelli come lui, l'Impero li usava, ma non li amava e, se possibile, se ne disfaceva.

Partito con il kiplinghiano «fardello dell'uomo bianco» sulle spalle, nei suoi vent'anni di esistenza da esploratore Younghusband aveva però avuto tempo di accorgersi che quel «fardello» aveva un cuore e un cervello, non era un minorato mentale. Per i successivi quarant'anni circa della sua vita, il prototipo vittoriano dell'Impero si trasformò in un propagandista dello smantellamento dell'Impero, della sua religione, della sua morale: fu presidente della Royal Geographical Society, organizzò le prime quattro spedizioni sull'Everest, fu amico di Bertrand Russell e a suo agio tra filosofi, poeti, scienziati. L'Impero stette ben attento a non rimetterlo in gioco, ma non gli riuscì mai più di avere nei suoi confronti l'ultima parola.

Veniamo al secondo punto. Il trattato di pace stilato da Younghusband metteva il Tibet nelle mani dell'Inghilterra per i successivi 75 anni, in sostanza sino all'arrivo al potere di Margaret Thatcher... A Londra però si misero paura. Avevano creduto che interessasse all'impero russo, si accorsero che non era così e che, inoltre, il Tibet «era un problema e una spesa». Stilarono un nuovo trattato, scesero da 75 a 3 anni, stabilirono d'intesa con i russi che il Tibet era un problema cinese e così chiusero la questione. Il viceré dell'India, Lord Curzon, che d'intesa con il Governo era stato la longa manus dell'invasione, fu costretto a dimettersi, Younghusband, come già detto, fu messo nel limbo degli ufficiali in servizio, ma da non utilizzare.

Infine il terzo. Nel libro, una lunga postfazione di Stanley F. Ukridge racconta Peter Fleming per esteso. Ci limitiamo a dire che si tratta della stessa persona che negli anni Trenta era stato il modello più perfetto del travel writer inglese: il suo News from the Tartary, 4mila chilometri di viaggio da Pechino al Sinkiang all'India, è un classico del genere, nonché un capolavoro di scrittura. Durante la Seconda guerra mondiale organizzò la difesa interna dell'Inghilterra in caso di invasione tedesca, fu impiegato in operazioni di sabotaggio e di spionaggio in Grecia e nell'Estremo Oriente, rischiose, complesse, a volte cervellotiche per l'impossibilità dei compiti affidatigli, che fecero sì che suo fratello, Ian Fleming, modellasse su di lui il personaggio di James Bond, l'agente segreto 007. Negli anni Cinquanta-Sessanta fu un apprezzatissimo autore di libri di storia, sempre ambientati nei luoghi dove, trent'anni prima, aveva viaggiato e che conosceva quindi di persona e non per averli letti nei libri: The Siege at Peking, The Fate of Admiral Kolchak. Morì durante una partita di caccia, la sua vera, grande passione.

Un altro Younghusband, insomma.

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