Ho perso il conto delle settimane durante le quali i quotidiani italiani, ogni giorno, hanno dedicato paginate all'orribile morte di Giulio Regeni, trucidato, previe torture, in Egitto da mani ancora ignote. Le autorità italiane si affannano per sapere come sia maturata la morte del giovin ricercatore, ma non verranno mai a capo di nulla. Esse si illudono che il governo del Paese africano riveli non solo ogni dettaglio dell'omicidio, ma anche i nomi degli assassini. Attesa vana.
Infatti quella che ha sede istituzionale al Cairo non è una democrazia collaudata e avvezza a fare chiarezza su ogni fatto torbido; trattasi viceversa di dittatura militare spietata per definizione e incline ad ammazzare chiunque ne mini la stabilità. Una dittatura che, tuttavia, ha un merito. Quello di avere mandato a casa con la forza - l'unico «argomento» valido in Medioriente e zone limitrofe - i Fratelli musulmani, che si erano insediati al potere dopo le famigerate primavere arabe. Siamo consapevoli che per il governo Renzi sarebbe importante riuscire a scoprire gli autori del delitto, ma è evidente che l'impresa sarà impossibile.
Bisogna guardare in faccia la realtà. L'Italia con l'Egitto ha rapporti stretti d'affari (ballano miliardi di euro) e non si spingerà mai fino in fondo per sapere la verità, essendo edotta che i despoti militari considerano il trapasso di Regeni poco più di uno spiacevole incidente, forse causato dall'attività del ricercatore, giudicata dal regime un'intromissione nelle vicende locali. Insomma, aspettarsi che sia scoperchiato il motivo autentico dell'uccisione dello studioso nostro compatriota è da ingenui.
Semmai bisogna capire per quale ragione costui, con un brillante curriculum universitario, abbia programmato di trasferirsi da Londra (e dal Friuli, in seguito) per recarsi in un continente che, solo a nominarlo, provoca i brividi, data la pericolosità della sua situazione politica e sociale. Ovvio che Regeni non pensasse di correre il rischio di essere ammazzato in quel modo, ma è proprio questo il punto. Tempo fa due ragazzotte lombarde emigrarono in Siria per portare un generico (e mai precisato) aiuto alle popolazioni indigene, dopo di che furono rapite da una banda di malviventi e, per liberarle, dovemmo sganciare qualche milione di euro.
La stessa cosa era accaduta alle famose due Simone, insediatesi incoscientemente a Baghdad nel pieno della guerra in Irak. E anche per loro fu versato un riscatto cospicuo, altrimenti sarebbero state eliminate. Precedenti clamorosi che però non servirono da lezione, tant'è che Regeni non ha esitato a volare in Egitto per analizzare i movimenti sindacali sviluppatisi in riva al Nilo, trascurando le insidie cui andava incontro. Va da sé che chi lo ha massacrato avesse identificato (erroneamente) in lui un personaggio ambiguo, magari in combutta con i contestatori del potere militare, e nel tentativo di farlo parlare lo abbia crudelmente torturato sino a stroncarlo.
Un episodio disgustoso ma in linea con i metodi adottati da certi regimi.
Ergo, applicando le regole della realpolitik, non rimane che raccomandare (anzi, vietare) ai nostri connazionali di scegliere quale meta (sia pure a scopo di studio o umanitario) Paesi dove le probabilità di finire male sono elevate. Dispiace per il povero dottorino friulano, e per i suoi genitori disperati, ma l'opzione di andare a sfruculiare gli egiziani è stata infausta, gravissima, inopportuna.
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