«Il mio Mercato Centrale è arte che diventa cucina»

Là dove c'erano solo bancarelle, c'è un mix di arte e artigianato che fa il tutto esaurito: «La bellezza ci salverà. Anche a tavola»

nostro inviato a Firenze

«Per favore, puoi abbassare un pochino questa musica?». Sono le 10 del mattino e il Mercato Centrale di Firenze si sta svegliando. È l'ora di un caffè con Umberto Montano e lui, il Presidente, si sta guardando intorno per vedere che tutto sia a posto, in mezzo alle botteghe della sua creatura. Insomma: i particolari contano. E allora Umberto si siede al bar, scruta rapidamente intorno, fa abbassare la musica e racconta. A Firenze era già famoso per il ristorante Alle Murate , ora è anche l'uomo che ha trasformato un mercato - quello comunale ancora al piano di sotto - nel Mercato. Che sua volta ha cambiato la vita di un intero quartiere, San Lorenzo. Un successo (a Pasqua hanno chiuso le porte per la troppa affluenza di chi voleva comprare e chi voleva mangiare ai tavoli sparsi per tutta l'area), una storia d'altri tempi. «Una storia di sogni, alcuni realizzati e altri meno. Ma sempre di sogni si vive».

Come nasce un sogno così?

«Nella mia Basilicata. Primo lavoro a 13 anni: ho capito subito che quello del cibo era il mondo dove si può sognare di andare lontano senza avere nulla. Così a 15 anni ebbi l'occasione e andai a lavorare all'Hotel Splendid di Portofino».

Primi Anni '70: un viaggio allora...

«Già: mia mamma mi mandò con le scarpe nuove, fatte dallo zio calzolaio. E perché non si rompessero avevano il salvapunte e salvatacco di ferro. E le tacce , i chiodi tutto intorno, perché il ferro doveva contenere la fiamma dei piedi».

Un figurone.

«Sul marmo dello Splendid sembrava fosse entrato un cavallo. Ovviamente mi deridevano, però entrai nelle grazie del gigantesco barman Antoine: aveva il Piaget d'oro e la Rolls Royce parcheggiata davanti all'albergo. Per il resto nulla: dormiva nelle stanze del personale, non spendeva, non aveva famiglia. Mi regalò un paio di scarpe di gomma».

Cosa ha imparato da lui?

«La prima regola: Antoine mi diceva che dovevamo assomigliare ai nostri clienti. Aprii il Pub 80, a Stigliano, provincia di Matera: era talmente raffinato che fui preso di mira dai bulli del paese. E sono scappato di nuovo, con le buste di plastica. Altro che valigie di cartone».

Arrivò a Firenze..

«Mio papà mi ha insegnato la cosa fondamentale: diceva che per fare robe belle nella vita una mano va messa in tasca, l'altra sulla testa. Essere rispettabile è fodamentale, tenere i piedi piantati per terra pure, anche quando sogni. Così mi sono iscritto alla scuola alberghiera».

Però poi...

«Infatti: però. Era il 1981, c'era Fiorentina-Milan e il mio compagno di camera tifoso rossonero andò allo stadio. Io invitai una ragazza a vedere la collezione di farfalle e 9 mesi dopo è nato Domenico. Che adesso dirige il Mercato».

Come ha fatto a cavarsela?

«Ero un buon studente e il preside mi apprezzava. Mi diedero un lavoro: a quei tempi mancavano gli insegnanti per le scuole alberghiere e i concorsi si facevano internamente. Lo vinsi io...».

Un'avventura vera e propria.

«Le dirò: ho vissuto nelle condizioni più impensabili ma sempre felice. Così nell'83 ecco il nuovo sogno: ho aperto il ristorante Alle Murate , nel Far West del centro storico, 400 metri dopo l'enoteca Pinchiorri ma vicino a Sollicciano, il carcere. Quando la prigione chiuse diedi come simbolo al ristorante una gabbietta per gli uccelli vuota e aperta».

È stato subito successo?

«In realtà no. Facevo il cuoco e il cameriere: il noto gastronomo Leonardo Romanelli mi aiutava in cucina e io servivo ai tavoli. Lui però poi lasciava tutto com'era e io col mio papà mettevo a posto fino alle 3 di notte. Sempre col sorriso».

Quando è arrivata la svolta?

«Nel '90 ho restaurato il locale come ristorante d'èlite: cucina creativa e buoni prezzi. Abbiamo perfino trovato scrostando un muro un ritratto inedito di Dante Alighieri. Da lì in poi abbiamo aperto altri locali in città».

E finalmente il Mercato Centrale.

«Mi serviva un grande progetto, un nuovo sogno. Fui sfidato da Renzi e da Nardella, l'attuale sindaco allora assessore, dopo due gare d'appalto deserte: “Ma Umberto, ma nemmeno tu ci dai una mano?“. Io non sapevo nulla: sono venuto a vedere e mi sono innamorato».

Come si trasforma un mercato?

«Col partner giusto, perché io so gestire la ristorazione ma non i grandi numeri. Ho chiamato Claudio Cardini, capo di Ec Vacanze e leader del turismo medium-low profile nel quale la gente deve stare bene. Una rivoluzione: era la persona ideale. Ha misurato il luogo a passi, il progetto è partito stretta di mano».

Quanto tempo ci avete messo?

«Nel gennaio 2013 sono state aperte buste, ad aprile abbiamo avuto le chiavi e abbiamo cominciato a lavorare con i vigili del fuoco. Il comune ha trattato la cosa come fosse sua, la soprintendenza ci ha dato mano: è la dimostrazione che la burocrazia in Italia si può superare. Prima pietra 7 dicembre 2013, il 23 aprile 2014 abbiamo aperto. Diciamolo: abbiamo riqualificato un quartiere ».

Come definirebbe il Mercato?

«Un posto aggrega che artigiani che fanno le cose per bene. Ce ne sono di tutti i tipi e per tutti i sapori: San Francesco diceva che chi lavora con le mani è un operaio, chi lavora con le mani e con il cuore è un artigiano, chi lavora con mani, cuore e testa è un'artista. Qui ci sono solo artisti».

E c'è anche l'arte infatti.

«Questo posto è aperto a tutti: dibattiti, conferenze, mostre, presentazioni di libri. Tutto gratis. La bellezza ci salverà perché abitua a fare bene».

Per esempio?

«Guardi il panettiere: David Bedù, vicecampione del mondo 2005, fa il pane con lievito madre e farina macinata a pietra. Questo è un luogo d'incontro di straordinaria qualità. È un concept».

Prossimo sogno?

«Affermarci: abbiamo dato 250 posti di lavoro e sono 250 persone entusiaste. Guardi le facce: ci si sente coinvolti in prima persone. Quando non servirà più la mia presenza allora allargherò gli orizzonti e il mio socio non vede l'ora».

Da re del Mercato: un consiglio agli chef?

«Sa qual è l'errore? Rinnegare il passato.

La storia della cucina italiana è una storia di civiltà: non si può dire alla zia romana che nell'amatriciana va l'aglio come sostiene Cracco. I veri custodi della tradizioni non sono gli chef, ma le loro madri. E le loro nonne. Che andavano al mercato».

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