Le «mazzette» del Qatar raccolte dai fondatori di una Ong dal nome fatidico «Fight Impunity» (combatti l'impunità), vicina alla sinistra, per coprire l'assenza di democrazia e di diritti in quel Paese, fanno il paio con l'avviso di garanzia alla compagna del deputato del Pd, Aboubakar Soumahoro, per la gestione della cooperativa per migranti dal nome altrettanto enfatico, «Karibu», che in lingua swahili significa «benvenuto». Un nome che però cozza con l'accusa di sfruttamento alla base dell'indagine che la riguarda.
In entrambi i casi, infatti, si usano purtroppo delle buone cause e dei giusti valori per specularci su o, peggio, per fare l'esatto contrario di ciò che si professa. Lo dico senza polemica, ma anzi con una punta di rammarico: è l'altra faccia del «buonismo», quando il «buonismo», come avviene spesso al mondo d'oggi, si trasforma in un'ideologia.
Ci sono parole ed espressioni potenti che si trasformano in lasciapassare per mettere in piedi qualsiasi cosa per supposte battaglie ideali, sulle quali c'è però il rischio che qualcuno lucri. I diritti umani, i migranti, la difesa delle libertà, l'ambientalismo, la pace, l'Europa, addirittura la lotta alla mafia (basta ricordare l'inchiesta sulla gestione dei patrimoni sequestrati alle cosche che ha coinvolto un giudice a Palermo): sono tutti temi che vengono avvolti da una spessa patina di retorica che impedisce di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato. Basta la patente di combattente per una buona causa, spesso indefinita, per diventare intoccabili, per trasformarsi in entità su cui è addirittura peccato nutrire dubbi o riserve. È lo stesso meccanismo alla base di quei banchetti che incontri agli angoli delle strade, dove ti chiedono «una firma per la lotta alla droga», tema sul quale è difficile non essere d'accordo, accompagnata poi dalla richiesta di un obolo di cui non è chiara la destinazione.
Ora, naturalmente, sarebbe sbagliato gettare il bambino insieme all'acqua sporca, ma è anche vero che di certe filippiche che si sentono in tv, di certa retorica a buon mercato che impera nei «talk show», di certo buonismo basico e a volte persino banale che caratterizza alcuni corsivi da quotidiano, si potrebbe pure fare a meno. Anche perché la realtà - come ci ricordano le cronache di questi giorni - è ben più complessa di come si presenta. Per cui i dubbi non sono solo leciti, ma a volte anche funzionali ad evitare pericolosi miraggi che arrecano danni irreparabili a quegli stessi valori che si vorrebbero difendere. Soprattutto bisognerebbe fare a meno di quella retorica, che a volte sconfina nell'ipocrisia, parente stretta di certo buonismo.
La verità è che le buone cause si servono con una buona dose di pragmatismo, di realismo e di apertura al confronto, perché le belle idee che si trasformano in ideologia a volte rendono ciechi. È la triste storia del secolo breve.
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