Meloni e il pragmatismo dei fatti nella "rivoluzione" delle destre

Trump ama le iperboli e la retorica populista per assecondare la rabbia dei suoi. I conservatori italiani puntano su un’opera di governo fondata su "stop and go"

Meloni e il pragmatismo dei fatti nella "rivoluzione" delle destre

"La restaurazione della monarchia, che chiamiamo controrivoluzione", ha scritto Joseph de Maistre nelle Considérations sur la France, "non sarà affatto una rivoluzione al contrario, ma il contrario della rivoluzione". Seguendo il grande reazionario savoiardo, possiamo chiederci anche noi se la controrivoluzione cui stiamo assistendo sia una rivoluzione al contrario o il contrario di una rivoluzione. Ho il sospetto, per anticipare la conclusione, che i controrivoluzionari vorrebbero fare la rivoluzione al contrario ma, vedendo che non è possibile, si stiano sempre più accontentando del contrario della rivoluzione. Se così fosse, non sarebbe necessariamente una cattiva notizia. Ma andiamo con ordine.

Una controrivoluzione contro quale rivoluzione, innanzitutto? Contro quella che in varie forme dura dagli anni Sessanta del Novecento e che, facendo forza su emancipazione individuale, integrazione del pianeta e innovazione tecnologica, ha disintegrato corpi intermedi, Stati nazionali e tradizioni comunitarie. L'italiano medio degli anni Sessanta aveva un potere d'acquisto modesto e consumava poco, si sposava presto e faceva figli, frequentava la parrocchia e s'iscriveva ai partiti, si svagava al cinema, viaggiava poco o nulla e viveva circondato d'italiani. L'italiano medio del 2025 consuma assai più di suo nonno e soprattutto beni assai diversi, non si sposa e non fa figli, non va in Chiesa e non s'iscrive a un partito, trascorre il tempo libero in casa su social e piattaforme, vive in un paese d'immigrazione, mangia (talvolta) sushi e kebab e cerca di viaggiare più che può. Parlare di rivoluzione non mi sembra esagerato.

L'insurrezione politica che ha destabilizzato le democrazie nell'ultimo decennio nasce in reazione a queste trasformazioni rivoluzionarie. E merita pertanto di esser chiamata controrivoluzione. All'inizio è stata disordinata e caotica, un confuso moto di protesta generato da ansia e frustrazione che ha imboccato le direzioni più diverse, da Grillo a Le Pen, da Farage a Iglesias. Ma in questi ultimi anni si è consolidata, sta conquistando le istituzioni e acquisendo un profilo politico meglio definito, pressoché sempre di destra. Diventa possibile chiedersi allora se sia una rivoluzione al contrario, un secondo processo di ribaltamento dell'ordine politico e sociale che procede in direzione opposta rispetto a quello degli ultimi sessant'anni. Oppure il contrario della rivoluzione: se non proprio il ritorno al passato vagheggiato da de Maistre, quanto meno un brusco colpo di freno imposto alle trasformazioni storiche.

La destra populista protagonista della controrivoluzione ama presentarsi come rivoluzionaria. Basta scorrere i discorsi di Donald Trump, traboccanti di iperboli futuriste, per rendersene conto. L'America tornerà a vincere come non ha vinto mai, viviamo un tempo di opportunità straordinarie e potenziale illimitato, sogni impossibili sono ormai a portata di mano, siamo pronti a svelare i misteri dello spazio, liberare la Terra dal dolore della malattia e mettere al lavoro le energie, le industrie e le tecnologie di domani, il futuro è nostro, l'età d'oro comincia proprio adesso.

Ma al di là delle retoriche tonitruanti, quanti hanno votato per i controrivoluzionari la vogliono davvero, questa rivoluzione al contrario? Sono angosciati e furibondi, certo. Però dalla metamorfosi degli ultimi sessant'anni, oltre ai problemi, hanno tratto pure parecchi vantaggi. E per quanto si sentano disperati non è così poco quel che hanno da perdere. È possibile ipotizzare allora che gli elettori populisti desiderino in realtà il contrario della rivoluzione. Non il rovesciamento dell'ordine attuale ma un ritmo meno frenetico del cambiamento storico e interventi correttivi che ne attenuino gli effetti più allarmanti.

Il caso italiano parrebbe confermare quest'ipotesi. Se ne seguiamo il filo scopriamo che il governo Meloni conserva il consenso non malgrado non stia facendo la rivoluzione ma proprio perché non la fa. Chi lo ha votato ne sta ricevendo esattamente quel che vuole: una maggioranza che invece di celebrare l'erosione della sovranità nazionale e del tessuto comunitario cerca pragmaticamente di rallentarla e limitarla. Nulla di meno e nulla di più. E si capisce pure perché intorno all'attuale maggioranza non si sia sviluppata in tre anni un'elaborazione culturale degna di nota. Perché in realtà non ce n'è bisogno: la cultura della stagione di Giorgia Meloni è la sua opera di governo, il cui senso non sta tanto in quel che fa quanto in quel che impedisce.

In un mondo globalizzato non sarebbe comunque l'Italia a poter fare una rivoluzione. Al massimo la può anticipare. Invece gli Stati Uniti possono farla eccome. Là dove a Meloni non è consentito andare oltre il contrario della rivoluzione, Trump ha la forza di tentare la rivoluzione al contrario. Nonostante tutto quel che si è scritto e si scrive sull'impatto dirompente che il Presidente sta avendo dentro e fuori il suo Paese, a me continua a sembrare che anche quel tentativo sia destinato al fallimento.

Ma è vero pure che molto dipenderà, nei prossimi anni, dall'impatto della tecnologia. Se sarà così violento come alcuni pensano (ma altri ne dubitano), allora sì, potrebbe aprirsi lo spazio per una rivoluzione al contrario.

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