Siamo in campagna elettorale quindi è quasi lecito tutto e il contrario. È come un incontro di boxe, prima di entrare sul ring: i due pugili parlano per caricare soprattutto se stessi. Matteo Salvini però prima di criticare la candidatura di Marchini dovrebbe riflettere e trovare argomenti meno contraddittori di quelli che va ripetendo da giorni: «Io ho voglia di sfidare Renzi guardando al futuro, non guardando al passato. Quindi, se ci sono i Fini, gli Alemanno, i Casini non è il centrodestra cui penso». Opinione legittima, per certi aspetti anche condivisibile, se non fosse che la Lega di Roma è composta per buona parte da esponenti di quella Alleanza nazionale che aveva in Fini e Alemanno due dei suoi leader. Non solo. A Milano Salvini è parte determinante della coalizione che appoggia Parisi, coalizione a cui aderiscono gli stessi che a Roma hanno preferito Marchini alla Meloni. Per non parlare della Regione Lombardia o della Liguria, dove tutti insieme addirittura governano.
Probabilmente Salvini tutto questo lo sa meglio di noi, ma la partita di Roma è diventata troppo importante per non fare uno strappo alla coerenza. Non c'è dubbio che dopo il voto si debba ripensare il futuro del centrodestra. Va immaginato, disegnato, sognato, senza pregiudizi e tabù, va discusso guardandosi in faccia, ognuno con le proprie idee e con le carte che ha in mano. Ma questo è il «post».
Ora siamo nel «pre» e il rischio è peccare di troppa foga, di rompere tutti i ponti e smarrirsi, fino a non riconoscersi. È sicuro allora Salvini che lo strappo non sia poi con gli alleati ma con i cittadini che votano?
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