Nell'eccidio di Schio il sangue dei vinti scorse a fiumi. E non metaforicamente, perché chi arrivò alla porta del carcere vide pareti e soffitti orrendamente schizzati e una poltiglia informe scendere dalle scale e colorare di rosso la strada. Era la notte tra il 6 e il 7 luglio del 1945 e la guerra era già finita già da più di due mesi. Eppure i partigiani della Divisione Garibaldi Ateo Garemi con imbracciati i mitra ancora fumanti, si avventarono perfino sui barellieri, impedendo loro di entrare per soccorre i moribondi e quei feriti che si salvarono solo perché nascosti sotto una montagna di cadaveri.
Ieri, di fronte al vescovo di Vicenza Beniamino Pizziol, si sono incontrati per firmare un «atto di riconciliazione» Anna Vescovi, la figlia dell'allora commissario prefettizio e pluridecorato capitano della Divisione Ariete in Africa Giulio Vescovi e il suo carnefice, il partigiano comunista Valentino Bortoloso dall'eloquente nome di battaglia Teppa. Per lui una condanna a morte dalla Corte militare alleata presieduta dal colonnello americano Beherens, tramutata in ergastolo e poi cancellata dall'amnistia Togliatti. Un gesto personale, anticipato ieri da Repubblica che merita tutto il rispetto umano, ma che non può cancellare l'orrore di quella notte e l'ancor più crudele oblio a cui sono stati condannati dalla storiografia ufficiale e dalle istituzioni quei morti, ancora relegati nell'elenco dei dannati e dei reietti per cui la giustizia degli uomini in fondo non è poi così necessaria e il ricordo di ogni anniversario è delegato unicamente ai parenti delle vittime e a pochi altri comunque bollati come nostalgici fascisti. «La signora - spiega un protagonista di quei giorni che chiede di rimanere anonimo perché ne ho già passate abbastanza - parla per sé ed è giusto e comprensibile che lo faccia. Ma noi siamo stati abbandonati da tutti, qui non è mai venuto nessuno, per noi giustizia non c'è mai stata».
E la sua commozione va alle 54 vittime cadute sotto la falce della morte e il martello degli iscritti al Partito comunista, responsabili di una delle stragi più mostruose che seguirono il 25 aprile. La maggior parte non erano nemmeno fascisti, per quasi tutti non furono individuate responsabilità penali nemmeno durante gli orrori della guerra civile. Quattordici le donne, la più giovane aveva appena 18 anni e la sola colpa di avere prestato servizio presso i tedeschi per sbarcare il lunario in tempi di guerra. Mai stata fascista anche la padrona di casa di un partigiano che non le pagava l'affitto e che il giorno della Liberazione l'aveva fatta sbattere in carcere. Appena sedici gli anni di una ferita e solo Dio sa quale fosse la colpa che avrebbe dovuto pagare con la vita. Forse, come per tante altre, solo il destino di essere rinchiusa in cella come ostaggio ed esca per costringere genitori o fratelli a tornare in paese e finire così nelle mani della giustizia partigiana.
«Mai prima d'ora il buon nome dell'Italia è caduto tanto in basso nella mia stima», disse il generale americano Dunlop, governatore alleato nel Veneto augurandosi per i responsabili che «il rimorso per questo turpe delitto li tormenterà in eterno». Molti erano operai e operaie del lanificio Rossi, poi commercianti, imprenditori, il farmacista del paese. L'Unità liquidò subito i responsabili, tra cui Bortoloso e Igino Piva («Romero») come «provocatori trotskisti», ma i tre di loro che sfuggirono alle indagini andarono al ministero di Grazia e giustizia da Palmiro Togliatti e furono ricevuti dal segretario Massimo Caprara che li aiutò a fuggire a Praga. Altri trovarono l'impunità in Jugoslavia, lasciandosi alle spalle quella notte e la violenta discussione al momento di decidere il destino da riservare alle donne. C'era chi si batté per risparmiarle, ma fu proprio Bortoloso a pretendere che fossero finite a colpi di mitra.
Perché «gli ordini sono ordini e vanno eseguiti», disse alludendo al mistero mai poi completamente svelato sugli ideatori del massacro di cui i partigiani furono forse solo gli esecutori. «Non c'erano mandanti», s'è affrettato a dire ieri a Repubblica, per un eccidio che «oggi possiamo considerare inutile e doloroso». Forse un po' poco per tutto quell'orrore.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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