Se la sinistra nostalgica fa apologia del '68

Renzi riesuma lo spettro del fascismo e Bersani rivuole la contestazione. Ma scorda che aprì gli anni di piombo

Se la sinistra nostalgica fa apologia del '68

La nostalgia progressista è l'ultimo ossimoro in vendita sul mercato della politica. Il Pd renziano lotta contro il fascismo, quello bersaniano, di cui mi sfugge la sigla, si riscopre sessantottino. Il Paese resta perplesso e si appresta, per quel che può, ad andare in vacanza, sperando che nel frattempo non gli piombi fra capo e collo un «governo balneare», altro must d'antan di quella Prima repubblica così provvida di invenzioni lessicali. Ricordate? Arco costituzionale, convergenze parallele, equilibri più avanzati, partito di lotta e di governo, autunno caldo, opposti estremismi... Che tempi, che tempre.

Siamo dunque con il fascismo alle porte e nell'attesa che scoppi la contestazione giovanile. Sul primo non ci pronunciamo, abbiamo già dato, sia come singoli sia come Giornale. Sul secondo, facciamo uno sforzo per prenderlo sul serio e vediamo più da vicino di cosa si tratta.

Intervistato dalla Stampa, Pier Luigi Bersani si stupisce «che non sia ancora partito un nuovo Sessantotto. Allora si contestavano le tre emme, mestiere, moglie, macchina, come qualcosa di antico. Oggi sono diventare un obiettivo, spesso un miraggio». Se l'italiano ha ancora un senso, più che un nuovo Sessantotto Bersani vorrebbe un Sessantotto al contrario, il mondo piccolo e medio borghese dei tempi del miracolo economico. Una canzoncina popolare, già al tempo gli faceva il verso: «Io vado in banca, / stipendio fisso, / così mi piazzo / e poi non ci penso più. / L'utilitaria, la compro a rate / e per l'estate mi faccio il vestito blu». Per uno che è stato comunista è un bel passo avanti, o indietro, fate voi. Ma quel che è più curioso è questo rimpianto dei Cinquanta scambiato per fermento rivoluzionario del futuro. «Tornate all'antico, sarà un progresso», diceva Giuseppe Verdi, ma si riferiva al teatro d'opera, mentre qui siamo all'Opera dei pupi.

«Nel Sessantotto l'economia tirava, ma per noi si pose un problema di libertà e di dignità» teorizza ancora Bersani. «Quei temi stanno tornando». Qui il pensiero un po' si ingarbuglia. All'epoca c'era una società affluente, e infatti la contestazione colpiva in breccia proprio quella, era a suo modo un rifiuto del sistema liberal-capitalistico, fatto in massima parte dai figli di quel sistema stesso, una rivolta contro quei padri che ne erano stati gli artefici. Lasciando stare la «libertà» e la «dignità», che ricordano un po' il «patriottismo» del dottor Johnson, ovvero «il rifugio di tutte le canaglie», di quali temi di ritorno parla Bersani? L'università di massa, il diciotto politico, il sesso libero, il Fuori omosessuale, i celerini-Ss, il processo ai padroni, l'esproprio proletario? Mah.

Una cosa però Bersani dovrebbe saperla e cioè che la storia non si taglia a fette, non è un salame delle sue parti. Il '68 vuole dire lotta studentesca e vuole dire anni di piombo, scioperi cortei e mazzieri, gambizzazioni e omicidi politici. Da noi fu una diarrea, attestata dal colorito giallognolo dei suoi reduci, che andò avanti per più di un decennio, un lunghissimo inverno del nostro scontento in cui il Paese fu anche preda di una guerra civile generazionale, non dichiarata ma strisciante, sanguinosa quanto insensata.

Un politico di alto bordo, segretario di partito, ministro, qual è stato Bersani, dovrebbe evitare semplificazioni farlocche, a meno di non dover riconoscere che in Italia l'alto bordo non è altro che piccolo cabotaggio, cosa che aiuterebbe a spiegare la crisi e il discredito in cui versa la nostra classe dirigente.

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