Coronavirus

Il Silenzio che ha squarciato un anno

Respira e sta in piedi, con la tromba in mano, come ad aspettare un segno. Due carabinieri con il pennacchio posano una corona sulla lapide e poi si spostano ai lati, anche loro fermi, in attesa. Nessuno parla.

Il Silenzio che ha squarciato un anno

Respira e sta in piedi, con la tromba in mano, come ad aspettare un segno. Due carabinieri con il pennacchio posano una corona sulla lapide e poi si spostano ai lati, anche loro fermi, in attesa. Nessuno parla. Sono le undici del mattino e una striscia di sole illumina la strada che porta al cimitero Monumentale. Sul viale degli alberi pizzuti si sente solo il suono di passi sul selciato. La voce di una ragazza legge le parole di Ernesto Olivero scritte sulla lapide. Tu ci sei e non è una domanda. I morti nella Bergamasca sono più di mille. Non sono ancora finiti. Mario Draghi cammina con le braccia tese verso il basso e non seguono il ritmo della gambe. Il suo corpo non sa cosa dire. Abbassa piano la testa, con un rispetto che non ha nulla di formale. Uno, due, tre passi e si avvicina, e allunga una mano, come una carezza, proprio al centro della ruota di fiori. È in quel momento che Paolo Fresu prende fiato e fa partire la prima nota.

È il silenzio e non ti è mai capitato di ascoltarlo a quest'ora. Va dolce in alto, poi fa tre giravolte e si insegue lontano. È lo stesso silenzio di malinconia che ti veniva a trovare la notte in caserma prima di andare a dormire. Solo che questa volta è più amaro e ti viene da allargare sconsolato le braccia. Pure Draghi sembra accennarlo, poi si ricompone e sta dritto a fissare avanti, con gli occhi che si fanno più piccoli. È la sua prima uscita fuori Roma da quando è presidente del Consiglio. Qualcuno, tra i pochi presenti, sussurra a chi sta per caso al suo fianco: «Si sta commuovendo». L'ultima nota della tromba di Fresu non si sa dove sia andata a finire.

Quanto dura il silenzio? Più di un anno. La notte delle bare sui camion militari sta lì, da qualche parte, nella mente, ogni volta che fatichi a prendere sonno. Torna, sempre in silenzio, senza parole. Torna nel non detto di Bergamo, che non ne parla, ma sa che è là. Torna nei saluti appena accennati, quando incroci qualcuno per strada, mantenendo una certa distanza, ma con uno sguardo d'intesa che sa di complicità, perché tutti in questa città conoscono un dolore da condividere. Bergamo non dice, non chiede, non reclama ad alta voce, ma non ha smesso di farsi domande, perché prima o poi a questa storia bisogna darle un senso e non per vendetta, ma per aiutarsi a capire.

Non c'è più il canto assillante delle sirene, quello che scandiva i minuti e ti faceva sussultare con un «stavolta a chi tocca». Non c'è e per un po' ti ha fatto quasi sperare contro le incertezze della scienza che la morte aveva ricompensato i sopravvissuti con un velo di immunità. Ci sono stati giorni in cui si parlava perfino di zona bianca. Poi sono tornate altre parole, varianti, terza ondata e contagi di nuovo in salita, e le campane a morte. Le sirene adesso ti sorprendono, con un fastidio, e ti sembrano fuori posto, ti fanno dire: ora basta. Ora davvero basta. Non c'è un modo per farla finire? Ci sono ancora 42 pazienti in terapia intensiva. Il guaio è che i contagi nelle ultime settimane sono aumentati e la sfida è capire cosa accadrà fra quindici giorni.

Si torna in macchina e il tempo scorre lento. Sui palazzi ci sono le bandiere a mezz'asta. Il 18 marzo sarà per sempre lutto nazionale. Le strade sono vuote e nei bar e nei negozi aperti si entra uno alla volta. Nessuno ha la forza di lamentarsi o di dimenticare. Tanto si sa che fino a Pasqua sarà così e tutti temono di cadere sull'ultimo metro. Un commerciante senza voce dice: «Spero di stare qui il prossimo anno». Non si sa se parla di sé o del negozio.

Il parco della Trucca ipotizza il navigatore non dista più di sette minuti. È lì che sta nascendo il bosco della memoria. È alla fine del viale Martin Luther King, al di là del confine c'è l'ospedale Giovanni XXIII, lì dove il fronte del virus è stato più duro. Qui verranno piantati 850 alberi. Questo è il giorno del tiglio. Ti viene in mente una poesia di Rimbaud. C'è un verso sul profumo dei tigli a giugno e magari non è lo stesso di marzo. Potrebbero leggerla i ragazzi prigionieri della pandemia e non importa se gli viene da ridere. «Non si può essere seri a diciassette anni». È quello che scriveva il ragazzo dalle suole di vento.

Il tiglio da piantare adesso viene da Biccari, in provincia di Foggia, e ha viaggiato per 800 e passa chilometri per arrivare fin qua. Gli ingressi sono sbarrati dalla polizia. Sarà una cerimonia intima. In pochi potranno entrare. C'è Draghi, c'è il sindaco Gori, il governatore Fontana, il vescovo Beschi, Marco Boschini che ha ideato il progetto e una pattuglia di gente. Stare in pochi forse è una scelta saggia, però ti chiedi se si poteva dare più fiducia al bosco, a questo grande spazio aperto dove magari il virus si perde. È per tornare all'aria aperta, nel verde, dove si può stare a distanza senza troppa paura. È solo per sperare. La natura fatica a esserci amica. Figli e nipoti di chi se ne è andato via avrebbero voluto esserci. Qualcuno ha capito, altri un po' meno. «Non hanno avuto il coraggio di incontrarci e ancora ci raccontano che è stata solo fatalità». Sono rimasti fuori e hanno ascoltato da lontano la tromba di Fresu, che qui nel parco non ha ripetuto lo stesso silenzio, ma ha improvvisato, seduto su una sedia, accartocciandosi nel vento, cercando la strada che porta fuori dal dolore.

Gori ha detto teniamo duro. «Bergamo mola mìa». Bisogna resistere ancora un po'. Tocca a Draghi parlare. «Siamo qui per promettere ai nostri anziani che non accadrà più che le persone fragili non vengano adeguatamente assistite e protette. Solo così rispetteremo la dignità di coloro che ci hanno lasciato. Solo così questo bosco della memoria sarà anche il luogo simbolo del nostro riscatto». È una promessa. È fare in modo che quello che è accaduto non accadrà domani. È la speranza nei vaccini, perché adesso il punto è proprio questo. Non si sa come siamo passati dalla paura per il virus a quella del vaccino. È come restare ancora prigionieri tra quello che è stato e quello che sarà. Non ce lo possiamo permettere e non ci sono alternative. «Il governo - e lo sapete bene - è impegnato a fare il maggior numero di vaccinazioni nel più breve tempo possibile. Questa è la nostra priorità. La sospensione del vaccino AstraZeneca, attuata lunedì con molti altri Paesi europei, è stata una decisione temporanea e precauzionale. L'Agenzia Europea dei Medicinali darà il suo parere definitivo sulla vicenda. Qualunque sia la sua decisione, la campagna vaccinale proseguirà con la stessa intensità, con gli stessi obiettivi».

Draghi conosceva già il verdetto su AstraZeneca. C'è nel suo discorso qualcosa che vale soprattutto per il futuro. Non si può prevedere quello che accadrà, se ci saranno altri inciampi, altre cadute, ma a qualsiasi costo il piano di vaccinazione andrà avanti, in fretta, con l'idea di uscire fuori dal buio entro l'estate. A costo di lavorare giorno e notte. Non ci sono scuse, non ci sono alibi. «L'incremento nelle forniture di alcuni vaccini aiuterà a compensare i ritardi da parte di altre case farmaceutiche. Abbiamo già preso decisioni incisive nei confronti delle aziende che non mantengono i patti». Questa è una promessa che ha il valore sacro di un giuramento. «Sono qui oggi per dirvi grazie e per impegnarmi insieme a tutti voi a ricostruire senza dimenticare».

Quando Draghi ha smesso di parlare si è alzato il vento ed è sceso il freddo. I prossimi giorni saranno un ultimo passaggio d'inverno. Il presidente del Consiglio prima di tornare a Roma ha alzato il bavero della giacca.

Alle spalle, lasciando Bergamo, ha visto che all'improvviso stava piovendo.

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