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Quella sporca "tregua natalizia" ci portò in dono la Grande guerra

A Napoli la chiamano a' pucundria e non è facile tradurla in italiano. Non è nostalgia. Non è solo quello. È un sentimento più sfumato.

Quella sporca "tregua natalizia" ci portò in dono la Grande guerra

A Napoli la chiamano a' pucundria e non è facile tradurla in italiano. Non è nostalgia. Non è solo quello. È un sentimento più sfumato. È la tristezza dei giorni di pioggia. È una certa inquietudine. È una paura sottile che poi si perde nella noia, nell'insoddisfazione, nella solitudine. E tutto questo insieme, come cantava Pino Daniele, ti sale ogni minuto in petto.

È questa l'atmosfera che si respira in questi giorni indefiniti, dove non sai cosa aspettarti e perfino la morte non ti sbatte più in faccia, anche se sta sempre lì, come un'abitudine, che quasi non ti sconvolge più. Quando finirà? E poi, poi che succede? Nessuno lo sa.

Allora ti aggrappi a quello che vedi più vicino, la prossima stazione di una vita sotto assedio. Nessuno ti parla del futuro lontano. Il centro del discorso pubblico diventa la «tregua di Natale». È il prossimo orizzonte e qui ognuno va incontro a modo suo. C'è chi spera di scavallarlo in fretta. Chi pensa alla festa perduta. Chi se ne frega, tanto sono giorni come altri. Chi pensa che questa volta non si risolleverà più. Chi si riscopre mistico, senza neppure nascondere l'ipocrisia: finalmente un bel Natale austero, senza luci, senza cenone, senza presepe. Chi prega e chi ringrazia di essere ancora vivo.

Il virus non è una guerra, eppure questa storia della tregua di Natale non può non riportarti a cento e passa anni indietro. Non ne puoi fare a meno. C'è una «tregua di Natale» che ti sbatte in trincea. È il 1914 e la grande guerra non ha mostrato ancora tutto il suo orrore. C'è ancora la speranza che finirà in fretta. L'ultima estate della belle époque è un ricordo fresco. È lontana solo una manciata di mesi. La vita sul fronte valeva già meno di niente, ma l'umanità non si era ancora abbrutita al punto da guardarsi negli occhi e non riconoscersi.

Arriva dicembre e, un po' alla volta, i soldati da una parte e dall'altra della cicatrice occidentale cominciano a scambiarsi piccoli doni. Le poche cose che puoi trovare dentro la trincea. I generali sono indispettiti, ma per ora fanno finta di non vedere. Ci si incontra fuori dalle linee per fumare una sigaretta e per qualche brindisi fuori ordinanza. La notte della vigilia i tedeschi accendono candele lungo le trincee e decorano gli alberi e lo stesso fanno gli inglesi e i francesi e tutti cantano le loro canzoni. Non sarà questa fottuta guerra a rovinarci il Natale. È quello che pensano, tirando fuori dalla notte una fiaccola di umanità. Bruce Bairnsfather quella tregua la ricorda così: «Non dimenticherò quello strano e unico giorno di Natale per niente al mondo. Notai un ufficiale tedesco, una specie di tenente credo, ed essendo io un po' collezionista gli dissi che avevo perso la testa per alcuni dei suoi bottoni».

Ci fu a Ypres, prima che il modo conoscesse il gas nervino, la leggendaria partita di pallone nella terra di nessuno. I nemici che disegnano sulla terra ghiacciata con la punta delle baionette le linee e improvvisano le porte. Non parlano la stessa lingua, ma il calcio non ha mai avuto bisogno di traduzione.

Non accadrà mai più. Non lo permetteranno re, governi e generali. Il Natale è solo una scusa per riconoscersi umani. Quella tregua però fu per una volta soltanto più forte di tutto.

La guerra poi macinò ogni cosa e quando l'Europa si risvegliò non era più la stessa.

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