Era dai tempi di Matteo Renzi che nella conferenza stampa del Premier di fine anno non si vedeva un personaggio «totus politicus». Paolo Gentiloni non è mai stato un leader di partito, Giuseppe Conte nei suoi due governi era più un professore che obbediva agli ordini di Giggino Di Maio prima di emanciparsi e prendersi i 5 Stelle, e Mario Draghi, al di là delle indubbie sensibilità politiche da esponente navigato dell'establishment che tutti gli riconoscono, è sempre stato il «tecnico» con la «T» maiuscola. Con Giorgia Meloni, invece, ritorna in auge la figura del leader «politico» per eccellenza. Quello che arriva a Palazzo Chigi sulla scia di una vittoria elettorale e, a differenza di quello che capita alle riserve della Repubblica chiamate a guidare un esecutivo di emergenza, la sua permanenza nella stanza dei bottoni non ha una scadenza temporale determinata da un'intesa istituzionale, ma si nutre dell'ambizione di durare l'intera legislatura, fino alle elezioni.
Non è un cambiamento di poco conto perché testimonia un ritorno alla normalità per il nostro Paese guidato per un'intera legislatura, quella trascorsa, da personalità di altro tipo che erano arrivate al governo come risultato di alchimie politiche e non sulla base di un chiaro responso delle urne. Un leader politico, infatti, può rispondere a tre ore di domande di fila senza sottoporsi ad equilibrismi, utilizzando un linguaggio diretto. Come pure può usare l'arma della polemica di parte, visto che è l'espressione di una parte («il Qatargate è un socialist job»). Può essere netto sull'Ucraina come sulla politica economica magari sposando una filosofia economica che può star stretta ad una parte della sua maggioranza («lavoreremo sempre dando priorità ai saldi di bilancio»). E, sopratutto, può dare un colore definito al proprio esecutivo dopo gli arlecchinismi dei governi gialloverde o giallorosso o le tinte neutre di quelli d'emergenza («quanto fatto finora è di destra»). E ancora può assumere posizioni corraggiose dall'impronta anti-giustizialista e garantista, appoggiando il ritorno alla prescrizione e ad un uso corretto e limitato delle intercettazioni telefoniche. O legare la sua eredità ad una riforma istituzionale epocale come il semi-presidenzialismo. Infine può anche accettare il «rischio» sula base di una valutazione politica come quella di avere di fronte un'opposizione divisa in tre tronconi («se le regionali saranno un test sul governo? Do per scontato che faremo i conti con il voto»).
Anche perché quando non sei al riparo di maggioranze larghe come premier «superpartes» e non guidi alleanze spurie imposte dalle condizioni date, è ovvio che il
governo è sempre una sfida, perché offri una ricetta economica, una visione del mondo, una filosofia ad un Paese che è libero di giudicarti, di lasciarsi convincere o no. È il rischio della Politica. Bentornata. Finalmente.
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