È davvero squallido l’atteggiamento di quanti, all’indomani del terremoto che ha colpito l’Emilia, non hanno saputo far altro che mettersi a cercare un capro espiatorio: puntando il dito sui cattivi imprenditori che hanno costruito male e speculato sulla vita altrui. Soltanto la morte di taluni padroncini, finiti pure loro sotto le macerie della aziende distrutte dal sisma, ha frenato queste voci: evitando le speculazioni più vergognose.
In realtà, le cose vanno lette in tutt’altro modo, perché pure in questo caso - come in molti altri - è proprio alla cultura della regolamentazione che va in larga misura addebitata la responsabilità di quanto è avvenuto.
Come qualcuno ha già evidenziato (penso in particolare a Oscar Giannino, su «Radio 24» e pure nel sito Chicago-blog), quest’area della Pianura Padana fino al 2003 non era classificata come sismica. Per di più, le nuove norme sono diventate vincolanti solo successivamente e, ovviamente, unicamente per le nuove costruzioni. Colpisce però che in molte occasioni abbiano retto meglio i vecchi fabbricati industriali rispetto ai più recenti: sono rimasti in piedi, insomma, quelli costruiti in una fase storica caratterizzata da norme meno stringenti, mentre sono crollati quelli edificati dopo.
Senza voler generalizzare, perché naturalmente ogni caso fa un po’ a sé, in linea di massima è abbastanza comprensibile che la logica giuridica del nostro tempo (caratterizzato da leggi dettagliate, che impongono il rispetto della forma ben più che la salvaguardia della sostanza) porti a simili risultati. In definitiva, in un sistema iper-regolamentato quello che è chiesto ai costruttori e agli imprenditori è il mero rispetto del dettato di legge.
Nel passato, prima che la nostra vita fosse invasa dalla massa impressionante di norme che oggi dobbiamo osservare, il sistema giuridico chiedeva comportamenti che fossero sostanzialmente orientati a tutelare i diritti altrui. Ogni soggetto doveva fare il possibile affinché la sua azione fosse caratterizzata da senso di responsabilità e non producesse conseguenze negative. Con il trionfo della regolamentazione, invece, è cambiato tutto: l’osservanza del codicillo (e spesso si tratta di un’osservanza onerosa, che impone grande attenzione e costi elevati) non soltanto è necessaria, ma spesso è anche sufficiente. Basti pensare a quanto sta avvenendo nell’ambito della medicina. Una cosa è dover agire «in scienza e coscienza», sempre sapendo che quello che si è fatto potrebbe non bastare e comunque essendo chiamati in ogni momento a impegnarsi al massimo per aiutare il paziente; e altra cosa, invece, è limitarsi a rispettare taluni protocolli predefiniti e fissati dal ministero.
In altri termini, è chiaro come la regolamentazione sia anche e soprattutto un meccanismo di deresponsabilizzazione. Quando aprire o gestire un’impresa è una corsa a ostacoli tra Asl, uffici comunali, agenzie regionali e mille altri apparati pubblici, è chiaro che «essere in regola» diventa talmente complicato che una volta conseguito questo risultato nessuno ha più il tempo, la testa e le risorse per fare un passo oltre.
Nella classifica «Doing Business» stilata dalla Banca mondiale, nella speciale sezione dedicata agli ostacoli frapposti a quanti richiedono i permessi di costruzione, l’Italia si classifica al novantaseiesimo posto: nella parte bassa della classifica. Questo vuol dire che l’apparato pubblico assorbe una grande quantità delle risorse e del tempo dell’imprenditore. Le conseguenze, alla fine, sono pesanti.
Bisogna poi sempre tenere presente che la regolamentazione frena l’economia, ostacola lo sviluppo, intralcia gli scambi. I Paesi altamente regolamentati sono Paesi che anno dopo anno impoveriscono: e dove non c’è crescita anche il grado di sicurezza di quanti lavorano tenderà a diminuire.
Chi invoca di continuo norme sempre nuove è mosso, senza dubbio, da buone intenzioni. Ma nei fatti la sua azione indebolisce l’economia, snatura il diritto e, alla fine, contribuisce a deresponsabilizzare sempre di più il comportamento di ognuno di noi.
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