"Tutta la verità da Mani pulite alla Lombardia"

Anzitutto "ribadisco la mia assoluta innocenza riguardo alle accuse per cui sono stato condannato nel processo Maugeri"

"Tutta la verità da Mani pulite alla Lombardia"

Anzitutto «ribadisco la mia assoluta innocenza riguardo alle accuse per cui sono stato condannato nel processo Maugeri». Si fa un torto a Roberto Formigoni, ma è inevitabile andare subito a pagina 477 per cominciare a raccontare la sua Storia popolare che esce oggi in libreria per i tipi Cantagalli con introduzione del cardinale Camillo Ruini. Eppure proprio nell'esigenza di non ridurre tutta la sua vicenda umana e politica a una controversa questione giudiziaria, sta il senso di queste pagine. E, per toglierci subito il pensiero e le possibili pruderie, ben poco anzi quasi nulla dei fascicoli processuali o delle vicende di tribunale compare in questo libro che rimanda i cultori del genere al tanto inchiostro già versato. Scelta che potrà essere considerata discutibile solo da chi avrà l'arroganza di sentenziare con superficialità, senza far la fatica di leggere i densi capitoli che ripercorrendo i sessant'anni di una vicenda personale, raccontano la storia recente del Paese. E forse non solo. Ma anche questo non è poi così vero, perché del processo Maugeri effettivamente si parla in quel capitolo così umano troppo umano dove si parla dei mesi trascorsi nel carcere di Bollate. Lì dove l'angheria burocratica di un letto troppo corto per un detenuto alto un metro e 88 centimetri era compensata da quel «presidente» con cui agenti e compagni di pena accompagnavano le giornate di un Formigoni a cui è toccata l'unica condanna dopo altre 16 vicende processuali concluse con assoluzioni e proscioglimenti in istruttoria.

E così la tentazione è di saltare al capitolo «Sanità» per capire di quell'accusa ricorrente di aver favorito i privati a danno del pubblico in un sistema considerato fra i migliori d'Europa e proprio in questi giorni invece crocefisso da media di fronte alla furia del Covid. A suo merito Formigoni, citando la Legge 31 del '97, porta numeri che parlano di «drastica riduzione delle liste di attesa per esami e interventi chirurgici salvavita dopo la nostra riforma sanitaria, risparmio di 60 milioni di euro di interessi passivi all'anno che la Regione non paga più dopo che abbiamo creato il Fondo sanitario regionale, 9 ospedali nuovi che abbiamo costruito nel giro di 14 anni». E all'obbiezione che con i soldi dati ai privati si sarebbero potute rafforzare le strutture pubbliche, Formigoni ribatte che «non è pubblico ciò che è statale, è pubblico ciò che serve l'interesse pubblico a costi pari o inferiori a quelli dell'intervento statale». Come nei giorni delle polemiche con il governo di centro-sinistra quando «io dicevo che la Bindi voleva che tutti i cittadini lombardi, si trattasse di Silvio Berlusconi o di un senzatetto, si curassero in un ospedale pubblico, mentre io volevo che i poveri potessero curarsi - gratis - al San Raffaele come Berlusconi». Intento forse realizzato, ma contestato oggi dai critici a cui Formigoni replica che la sua riforma è stata «compromessa» dal suo successore Roberto Maroni «gettando alle ortiche il piano che stavamo realizzando per la gestione delle cronicità sul territorio, anziché in ospedale». Con le evidenti ripercussioni sulla gestione dell'emergenza virus. E visto che di Maroni si parla, al capitolo «Immeritato epilogo» c'è un attacco violento nella ricostruzione dell'assessore Zambetti indagato e diventato il «pretesto» con cui Maroni ordinò alla Lega di togliere la fiducia «perché voleva diventare il presidente di Regione Lombardia e cercava un appiglio per far cadere il mio governo».

Ma la storia popolare nasce da più lontano se, come scrive Ruini, è l'impegno di chi fin da giovanissimo vuole «rendere esperienza la dottrina sociale cristiana». Non solo questione di fede se diventa «la storia di un politico cristiano insieme ad altri politici cristiani e non cristiani», gente che «negli anni Settanta ha contribuito a evitare l'avvento al potere di un Partito comunista ancora troppo subalterno a Mosca». Una strada cominciata con l'educazione alla fede di mamma Doralice e agli insegnamenti di papà Emilio, fascista ma non certo un fucilatore come volle far credere Umberto Bossi in una troppo accesa campagna elettorale. Poi il cursus honorum e la minuziosa ricostruzione di Gioventù studentesca e Comunione e liberazione, scialuppe di salvataggio quando gli insegnanti dispensavano lezioni influenzate «da una cultura laicista e marxisteggiante che tendeva a negare uno spazio di dibattito e di confronto alle altre culture, soprattutto a quella cattolica». Fino ad arrivare al Sessantotto, al passaggio dal Politecnico a Filosofia alla Cattolica e al decisivo incontro con don Giussani. «Per noi lo stato borghese andava cambiato dall'interno» la missione che porta nel 1969 alla nascita di Comunione e liberazione. Una ribellione ispirata a Cristo e non a Marx, anche se proprio al filosofo rosso Formigoni decise di dedicare la sua tesi di laurea, trovando l'ovvia opposizione dei professori della Cattolica. E invece, con lo stratagemma di camuffarla con un presocratico, fu possibile con Adriano Bausola relatore e Giovanni Reale correlatore la discussione di quella «Filosofia di Epicuro e gli scritti giovanili di Marx». Un prologo per quelli che sarebbero diventati degli «strani cristiani», talmente strani da finire nel mirino delle spranghe e delle omicide chiavi inglesi Hazet 36 degli extraparlamentari di sinistra che dando loro dei «fascisti» li minacciavano di morte e li mandavano all'ospedale per impedire l'ingresso nelle scuole e nei cortei dei lavoratori. Vennero gli anni del «Sabato» fucina di giornalisti e intellettuali, la nascita del Meeting di Rimini con l'elenco dei presidenti della Repubblica e delle personalità che vi parteciparono. Come il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini dopo il cui intervento Formigoni, violando qualunque etichetta e protocollo istituzionale, con una certa prepotenza volle parlare o il «latitante» Sandro Pertini il cui entourage inventò un infortunio a Selva di Val Gardena pur di tenerlo lontano da Rimini. Mentre al sempre presente Giulio Andreotti nella prima edizione una volontaria emozionata versò il brodo sul vestito. Nel 1982, invece, arrivò Giovanni Paolo II per chiedere ai partecipanti di «costruire instancabilmente la civiltà della verità e dell'amore» e Formigoni chiosò che «aveva dettato il programma del Movimento popolare».

Poi i giorni dell'Iraq con gli ostaggi riportati in Patria con grande scorno del governo e l'arrivo di Tangentopoli con cui «la magistratura, soprattutto ma non solo attraverso pubblici ministeri con simpatie politiche di sinistra, ebbe il via libera per aprire inchieste contro le forze del pentapartito, mentre il Pci non veniva toccato». E qui Formigoni è d'accordo con chi dice che «Mani pulite è stato nella sostanza un colpo di Stato» che salvò i comunisti presentandoli come il partito degli onesti.

Ma alle Regionali del 1995 comincia l'avventura dei 18 anni alla guida della Lombardia, dopo aver capito che «nel contesto di crisi sistemica che ha colpito le istituzioni una parte importante del potere politico si sta spostando sulle Regioni». Di qui la lunga lista degli atti di governo declinati sul registro della «sussidiarietà» e della «solidarietà», i cardini della dottrina sociale della Chiesa, la necessità di testimoniare l'identità cristiana in ogni ambito della società, tanto da aspirare a essere i «cattolici della presenza». Completo lo spettro degli interventi che mette in fila formazione, lavoro, infrastrutture, internazionalizzazione, scuola, famiglia, vita, finanza, rifiuti, ambiente e come si è già visto soprattutto la sanità che impegna l'80 per cento dei bilanci regionali.

A colpire in questo libro sono le undici pagine di nomi citati nel testo e ricapitolati in appendice. «Più nomi che nei Promessi sposi», ma è chiarissimo il pantheon in testa al quale c'è ovviamente don Giussani («Se potessi parlargli oggi? Sarei molto felice, perché vorrebbe dire che sono in paradiso con lui»). E poi il lungo rapporto con il cardinale Angelo Scola nato da ragazzi e i maestri nella politica La Pira, Moro, Cossiga e Andreotti. L'incontro con Silvio Berlusconi («Se avesse cambiato l'Italia come avrebbe voluto, ora staremmo tutti molto meglio») e tra le righe la confessione dell'ambizione poco celata di aver pensato di essere la persona giusta per raccogliere la sua eredità. E, infatti, parlando di un futuro letto prima dell'arrivo dell'attuale governo Draghi, Formigoni spiega che oggi «si sente una grande mancanza del centro» perché questo «bipolarismo di guerra» è stato letale per il buongoverno. Di qui l'auspicio della «nascita di una Forza Italia rinnovata», affiancata dalle formazioni di Lupi e Toti e dell'arrivo di un «cavaliere bianco» alla Mario Draghi. Cosa che poi è successa.

E siccome la politica è terra di valori e dolori, grande è quello per la lettera pubblicata da Juliàn Carròn, il presidente di Cl su Repubblica per condannare stili di vita troppo legati all'attrattiva del potere e dei soldi.

«Una pugnalata» che non impedisce l'ego me absolvo di un Formigoni che citando l'avvocato Franco Coppi si dichiara «condannato senza colpa e senza prove», pentito solo del pessimo stile di quel tuffo che non può inghiottire 18 anni di governo della Lombardia, 16 tra parlamento europeo e italiano e 12 alla guida del Movimento popolare.

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