Coronavirus

Le varianti Covid sono pericolose? "Non c'è nessuna dimostrazione"

Le varianti del virus potrebbero causare una maggiore facilità di contagio ma, al momento, mancano i dati scientifici per dimostrarlo. Ecco in cosa differiscono, perché c'è un "caso" Veneto ed i rischi legati ai vaccini

Le varianti Covid sono pericolose? "Non c'è nessuna dimostrazione"

Il nuovo anno si apre con l'ottima notizia che i vaccini cominciano ad essere somministati su larga scala ma, contemporaneamente, il virus non ne vuole sapere di mollare la presa. Di varianti del Covid-19 ce ne sono tantissime, forse centinaia, ma soprattutto tre (anzi quattro) sono balzate ultimamente agli onori delle cronache.

La variante inglese

È quella che ha fatto scoppiare il caos un paio di settimane fa (ne abbiamo parlato qui), quando l'Italia ed altri Paesi hanno chiuso in fretta e furia i propri confini per evitare il diffondersi del virus, considerato più contagioso, su larga scala visto che era appena stato isolato anche nel nostro Paese, nei laboratori dell'Ospedale militare del Celio di Roma. Ma di cosa si tratta? Secondo gli esperti, sarebbe differente dal genoma del ceppo originale di Wuhan in 17 punti (mutazioni acquisite nel corso di mesi) dando origine ad una nuova nuova. Questa presenterebbe diverse mutazioni nel sito del genoma che codifica per la proteina spike, quella che consente al Covid di legarsi alle cellule e penetrarvi.

"Gli inglesi dicono che la mutazione N501Y renda il virus ancora più contagioso di prima ma si basano soltanto su una osservazione epidemiologica: il 70% delle persone si infetta con questa nuova variante in poco tempo, per questo hanno detto che fosse più contagiosa e infettiva. Se prima, però, non si fanno le prove sulle cellule non si può sapere con certezza", ha affermato il Prof. Massimo Ciccozzi, Responsabile dell'Unità di Statistica medica ed Epidemiologia della Facoltà di Medicina e Chirurgia del Campus Bio- Medico di Roma.

La variante italiana

È molto simile a quella inglese e circolerebbe nel nostro paese dai primi di agosto: si tratta della “variante italiana” o "bresciana", da poco scoperta nella città lombarda. Lo ha raccontato ad AdnKronos Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia, secondo il quale si tratterebbe di una variante precedente a quella emersa a fine settembre nel Regno Unito. Con il Prof. Ciccozzi, recentemente, avevamo parlato delle 13 varianti italiane (clicca qui per il pezzo) scoperte da uno studio condotto dal suo staff, il primo in Italia che ha dimostrato come il virus sia cambiato in questi mesi. Ebbene, la variante bresciana è ancora più nuova. "È un'altra mutazione, scoperta per caso su un paziente oncologico: il prof. Caruso l'ha individuata perché il paziente ha mantenuto la positività al Covid per qualche mese, senza sintomi, ed è spontaneamente guarito. Questo ha fatto suonare un campanello d'allarme ed abbiamo trovato che fosse una variante simile a quella inglese ma differente per un aminoacido", ci ha spiegato Ciccozzi. "È una variante che nel tempo potrebbe sostituire la 'Dg614',ma per saperlo abbiamo bisogno di fare le prove sulle cellule".

"Tre mutazioni nel corpo del paziente". In pratica, il virus che ha tenuto positivo, per mesi, il paziente oncologico, ad agosto presentava dieci mutazioni mentre a novembre tredici: significa che dentro il corpo del paziente ha fatto tre mutazioni in più. "È normale se vale la teoria dell'adattamento evolutivo perché le mutazioni vengono indotte dal nostro sistema immunitario: poichè quello del paziente non funzionava bene essendo un immunodepresso, probabilmente ha consentito al virus di mutare. Queste mutazioni fanno capire che è un vero e proprio adattamento evolutivo", ci ha spiegato il ricercatore. A questo punto, resta fondamentale da capire la variante italiano-bresciana sia più contagiosa e, soprattutto, quanto sia diffusa. "Credo sia presente anche in altri pazienti ma, a differenza degli inglesi, non abbiamo un consorzio che ci permetta di fare una sorveglianza epidemiologica-molecolare. Se lo costituissimo, sapremmo quante varianti girano o di questa variante quanti pazienti ne sono affetti".

La variante sudafricana

Ed arriviamo alla terza grande variante di cui si sente parlare: alcuni dati che fanno pensare che la variante sudafricana sia particolarmente contagiosa e stia causando, in Sudafrica, una seconda ondata più estesa della prima. Come si legge su Focus, la diffusione di questa variante sembra essere focalizzata nelle regioni meridionale e sudorientale ed è legata a più alte cariche virali nei tamponi diagnostici, una caratteristica che potrebbe renderla più trasmissibile attraverso gli aerosol prodotti respirando e parlando. Nel Paese sono in corso studi per capire se causi una malattia più grave, se prenda di mira nello specifico i giovani e se i vaccini anti-Covid in via di sviluppo saranno efficaci contro di essa.

In realtà, però, quella vista in sudafrica è la stessa di quella inglese. "Variante inglese e sudafricana hanno una mutazione al sito 501 ed è chiamata N501Y. Quella di Brescia è chiamata N501T, quindi cambia l'aminoacido da Y a T. Probabilmente avranno un progenitore comune ma ad oggi non possiamo ancora dirlo", ha spiegato il Prof. Ciccozzi. Quindi, è come se di queste tre varianti, due siano "fratelli" (inglese e sudafricana) e siano strettamente imparentate con quella italiana-bresciana. Al momento, però, è impossibile stabilire se la sudafricana si sia diffusa nel Regno Unito o se è avvenuto l'esatto opposto. "La sudafricana è uguale a quella inglese, c'è stato il passaggio di qualcuno infettato con la sequenza inglese che è andato in Sudafrica o viceversa. Le varianti vanno studiate come struttura tridimensionale e dal punto di vista filogenetico per capire chi deriva da chi e chi infetta chi".

Laboratorio covid argentina

"Mancano le prove"

"È la bufala di fine anno quella di preoccuparci delle varianti: questo virus ne ha tante, è ad Rna e muta in continuazione, di varianti importanti già dallo scorso anno ne abbiamo viste più di una decina e non c'è nessuna dimostrazione che la variante inglese, quella bresciana di cui siamo venuti a conoscenza pochi giorni fa e quella sudafricana siano correlate a degli effetti importanti per la patologia Covid", afferma la Prof.ssa Maria Rita Gismondo, Direttore Responsabile di Microbiologia clinica, Virologia e Diagnostica dell'Ospedale Sacco di Milano, intervistata in esclusiva per il nostro giornale. "Quando sarà dimostrato, avrà senso indiviruarle e seguirle ma fino ad oggi tutto questo non è accaduto. Se si va sulla banca genetica, dove pubblichiamo le nostre sequenze, se ne trovano 20-23 mila. Chi lavora veramente in questo settore non pubblica ogni mutazione, è un virus ad Rna, muta anche all'interno dello stesso organismo", sottolinea la ricercatrice.

"Comunicarlo non serve a nessuno". Insomma, per la ricercatrice non è così utile parlare al grande pubblico delle varianti senza avere dati scientifici precisi. "Forse ci stavamo assopendo ed avevamo bisogno di una nuova notizia. Tra l'altro, cercare le varianti è un ottimo studio scientifico ed epidemiologico che facciamo nei centri ricerca in collaborazione con l'Istituto Superiore di Sanità per vedere via via come muta il virus. Ma fino a quando non si dimostra che una variante ci dà un effetto, e per dimostrarlo ci vuole del tempo e delle energie scienfitiche, direi che comunicarlo non serve a nessuno. Chi studia il virus lo conosce già, la variante era già presente a settembre", sottolinea la Gismondo. Ogni variante potrebbe provocare i più disparati comportamenti del virus: diventare più patogeno o meno patogeno, potrebbe diventare più invasivo ma non dare una patologia importante, potrebbe rendere il virus 'attaccante' nei confronti di nuove cellule oltre a quelle respiratorie, può davvero cambiare la vita del virus. "È inutile dire che in Inghilterra la variante sia stata responsabile della maggiore diffusione del virus, forse era più un'esigenza di Brexit più che di esigenza scientifica, la conoscevamo dallo scorso settembre dalle pubblicazioni scientifiche".

Cosa accade in Veneto?

Il Veneto continua ad essere la regione italiana con più casi giornalieri rispetto alle altre. Ma, durante la prima ondata, nonostante la vicinanza alla Lombardia, si era distinta per aver saputo contrastare molto bene l'avanzata del virus. Cosa sta accadendo adesso? È colpa di qualche variante del virus o le motivazioni sono da ricercare altrove?

Ecco la "pandemic fatigue". "La probabilità maggiore è che la gente stia accusando una certa fatica, chiamata 'pandemic fatigue': ad un certo punto ci si stanca ad essere così ligi nel seguire le misure di contenimento e qualsiasi regola. Se ad una popolazione si impone un certo comportamento, quando diventa tanto in termini di tempo, molti accusano la fatica di attenersi a queste misure e le abbandonano", ci dice la Gismondo. "Il motivo potrebbe essere questo ma è un azzardo come chi dice che dipenda dal virus, sono soltanto ipotesi ma non abbiamo dimostrazioni serie e fondate al riguardo".

Vaccini in pericolo?

Capitolo vaccini: ci si interroga e preoccupa se, dopo gli enormi sforzi delle case farmaceutiche, le continue mutazioni del Covid possano renderli inefficaci. La Gismondo rassicura, ma fino ad un certo punto. "Il pericolo che i vaccini possano, nel tempo, non essere più validi è sempre dietro l'angolo: se il virus muta, può accadere che il vaccino si trovi davanti ad un microrganismo diverso e non può esplicare la sua attività. Per un virus ad Rna è molto più probabile di altri", spiega la ricercatrice, che rassicura sulla situazione attuale del virus. "Stiamo parlando di pochissime varianti, come se si cambiasse uno spillo all'interno di un pagliaio. Dal momento che i vaccini proposti ad oggi hanno un'attività molto più ampia su tutto lo Spike del virus, che cambi esclusivamente una microparticella, una piccola sequenza o una proteina, non dovrebbe inficiare assolutamente l'attività dei vaccini".

Quando un virus subisce una vera mutazione, gli effetti diventano netti ed evidenti ed, isolandolo, si può genotipizzare, cioè permettere di determinare differenze nel corredo genetico o nel genotipo di un individuo. Se invece l'effettoè meno netto e di difficile individuazione o si può confondere con effetti simili, è necessario più tempo. "Di solito si fanno studi epidemiologici per capire quale tipologia di virus circola e se queste mutazioni appaiono, scompaiono o rimangono in maniera permamente nel virus.

Da questi dati si fanno delle deduzioni scientifiche", conclude la Gismondo.

vaccino anti-Covid

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