Cucina

Don Alfonso, la forza della famiglia

Gli Iaccarino riaprono dopo un anno di lavori a Sant’Agata dei Due Golfi, a cavallo tra il Golfo di Napoli e la Costiera Amalfitana, il ristorante che ha fatto la storia dell’alta accoglienza gastronomica campana. Alfonso e Livia ci sono ancora con la loro eleganza ma è ai figli Ernesto in cucina e Mario in sala che è affidata la continuità del progetto

Don Alfonso, la forza della famiglia

Ci sono poche grandi famiglie nella storia dell’alta gastronomia italiana, a provare a nominarle c’è certamente il rischio di trascurarne qualcuna e farla dispiacere. Ma non si sbaglia certo a inserire tra essi gli Iaccarino, che da Don Alfonso a Sant’Agata dei Due Golfi, quasi sulla punta della penisola sorrentina, a cavalcioni tra il golfo di Napoli e la Costiera, e con Capri che pare ‘nu babà da prendere a addentare, portano avanti una tradizione di alta accoglienza gastronomica che va avanti da 134 anni, da quel 1890 in cui Don Alfonso, appunto, dette il via alla saga aprendo questo posto. Pregio della famiglia Iaccarino è certamente quello di aver trovato la chiave per rinnovarsi continuamente pur nel segno di una tradizione che in pochi luoghi in Italia è forte come in queste terre. Alfonso Iaccarino, lo chef che negli anni Novanta ha portato questo ristorante ai massimi onori gastronomici, ha lasciato le redini in cucina al figlio Ernesto (classe 1970), che ha trovato una chiave personalissima per uscire dal cono d’ombra di un tanto ingombrante genitore. La sera Alfonso indossa ancora la giacca bianca, ma come un presidente della Repubblica che fa da garante della Costituzione e di giorno va in giro con l’amato cane. Livia, grande padrona di casa e moglie di Alfonso, continua a ingentilire il locale con la sua innata eleganza, ma è l’altro figlio Mario (classe 1971) a guidare la sala e a intrattenere i clienti, molti dei quali habituée che richiedono ogni sera un po’ del suo tempo e delle sue attenzioni. Don Alfonso 1890 ha riaperto lo scorso 28 marzo dopo dei lavori di ristrutturazione assai profondi che hanno richiesto quasi un anno di tempo, anche perché come spesso accade contrassegnati da contrattempi e colpi di scena. L’intervento ha riguardato soprattutto la parte esterna dell’edificio che ospita anche le camere dell’albergo Relais&Chateau, con uno spiazzo prima destinato al garage ora trasformato in un giardino all’inglese.

Don Alfonso

Il ristorante è stato ridisegnato all’insegna della continuità con il passato ed è dominato dal bianco della costiera, che caratterizza le piastrelle del pavimento, i muri, le porte e i tavoli. Un luogo che sa di freschezza e pulizia, arricchito da molti dettagli - i lampadari, i tanti specchi che moltiplicano lo spazio, i pezzi di design, le statuette del presepe acquistate dalla famiglia per salvare gli artigiani di San Biagio ai Librai. Due video in una sala trasmettono le immagini della cucina al lavoro per i clienti più lontani dallo spettacolo live. Il classicismo contemporaneo domina anche la cucina di Ernesto e della sua brigata, dove trova sempre più spazio l’elemento vegetale. Al quale è dedicato un menu degustazione ad hoc (Vegetariano… a 180 euro), che si accompagna alle altre due liste, La Tradizione (190 euro), che propone con chiarezza espositiva il concetto di radici secondo gli Iaccarinos, e La Degustazione (230 euro), il percorso più compiuto soprattutto se si ha a cuore di scoprire il punto esatto in cui si trova il pensiero gastronomico di Ernesto. Io ho divagato tra i vari menu affidandomi all’estro di giornata dello chef, partendo con una serie di snack assai saporiti (e anche leggermente più sostanziosi di quelli solitamente serviti altrove, che ti abbandonano nella terra dell’avrei-voluto-mangiarne-di-più) e imbattendomi nel primo incrocio fondamentale con la Ricciola affumicata con crema di fave fresche, chips di zenzero, olio infuso alla menta, yogurt con l’erba cipollina, maionese all’aglio fritto con il capolavoro di dadaismo della finta oliva fatta con vere olive. Poi ecco L’Orto Biologico di Punta Campanella, un piatto-playlist dei migliori ortaggi del magnifico “giardino” degli Iaccarino su un letto di crema di piselli: cipolla rossa cotta al vapore, finocchio grigliato, pomodoro confit e peperone crusco, foglie di broccolo napoletano e ravioli di funghi pioppini e porro, con l’accompagnamento di un gelato di rafano e di una salsa agrodolce alla curcuma. Un piatto che riempie gli occhi e il palato e che potrebbe essere eletto a manifesto del ritorno prepotente del sapore e di una certa opulenza di intenti nel fine dining italiano contemporaneo. Ecco gli Spaghetti aglio, olio e peperoncino con sgombro in carpione, salsa verde, pangrattato, pinoli, cipolla caramellata su salsa di tonno alalunga, piatto che potrebbe essere musicato come inno della Campania in tavola a danno di oleografie più sciatte. Quindi la zuppa di pomodoro e granchio reale, dentro una crosta di pane al sesamo che viene “aperta” al tavolo con un effetto scenografico che piace molto ai clienti. La Ventresca di tonno alla puttanesca con salsa di olive nere, gel di limoni e olio al prezzemolo è un vero vertice espressivo, il pesce si scioglie in bocca, un piatto che Livia mi confessa di adorare molto con un sorriso da sedicenne innamorata. Poi a chiudere la parte salata del pasto la Melanzana in tre cotture, con chutney di cipolla rossa di Tropea e riduzione di pomodoro acidulo. Capitolo dolci, qui prevedibilmente saliente. Dapprima il Sorbetto al limone con crumble di pistacchio, poi la Sfogliatella con una crema di cannella e amarena, il Limone che è un gioco di acrobazie limonesche, e la Frivolezza all’arancia con mousse al cioccolato bianco, arancia fresca, limone candito e salsa alla menta. Quindi un carnevale di piccoli dolcini che da solo varrebbero l’arrivare fin qui, ricordo una pastiera inserita in una sorta di pralina della quale, malgrado il quasi raggiunto limite di mia personale capienza, ho mangiato numero due esemplari. Ho anche bevuto un bicchiere di un certo liquore al limone che non può ricadere nella vasta e anonima schiera dei limoncelli, con la loro industriale modestia e i 10 limoni usati per litro di alcol, mentre qui sono ventisette, il numero di quanti ce ne stanno in una cesta. La cantina, curata dal bravo e ironico Maurizio, è assai ricca di referenze, ben articolate in una carta-tablet che permette di dividerle per regione, vitigno, tipologia, annata e prezzo.

Ma il vero punto forte della serata è stata la storia, il racconto, il senso innato di familiarità confidenziale ma mai invadente di ogni singolo membro della famiglia e del personale, che viene naturalmente annesso a questa catena di affetti che rende questo posto – credetemi – sensazionale.

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