
«Andiamo a mangiare dai Santini». Già, i Santini. Nome collettivo del piacere. La famiglia più nota, al punto che quando ne parli non sai se mettere in copertina Nadia, la mamma in cucina, Giovanni, il primogenito che l'aiuta e tira la baracca, Antonio, il papà, gran maestro dell'ospitalità, uomo di mondo in lungo e in largo, e Alberto, il secondo figlio, cerimoniere della sala; ciò che a ben vedere costituisce una sorta di doppia coppia, punteggio vincente perché con Valentina, moglie di Giovanni e anche lei in sala, si fa full, e vediamo chi ha un punto più alto.
La famiglia Santini significa Dal Pescatore a Runate, frazione di Canneto sull'Oglio, nella bassa mantovana, il ristorante che da più tempo detiene le tre stelle Michelin in Italia, dal 1996, quando ce n'erano solo tre e tutte in Lombardia: Gualtiero Marchesi in via Bonvesin de la Riva a Milano - altro pianeta, allora -, l'Antica Osteria del Ponte a Cassinetta di Lugagnano e loro, i Santini, sperduti in questa terra piatta come il décolleté di una modella della Fashion Week, di rane e canali, di silenzi e zanzare.
Dal Pescatore è come quella canzone di De Gregori, sempre e per sempre dalla stessa parte lo troverai, quella che fa stare bene il cliente. Niente avanguardia, a meno che con ciò non si intenda l'affidabilità e il senso del sapore. Ora che la sperimentazione, gli spagnolismi, il concetto che precede di molto il piacere, sono tutte cose che stanno passando di moda (e qualcuno chiama tutto questo crisi del fine dining), Dal Pescatore è il posto giusto, improvvisamente in prima linea. Qui la clientela è per lo più abituale, gente che ha il suo tavolo preferito, che sa già cosa ordinare, lo capisci quando vedi come sono a loro agio certe coppie, certe famiglie riunite per un compleanno, per un anniversario, per la voglia semplicemente di volersi bene.
Dal Pescatore c'è un menu in evoluzione, che segue le stagioni, ma i piatti per cui vale la pena venire sono sempre gli stessi, quelli racchiusi nel Menu del Pescatore. Me ne accorgo quando Antonio mi porta in tavola alcuni libri sul ristorante in francese, in inglese, perfino in giapponese, scritti più o meno tutti tra il tramonto del Novecento e l'alba del Duemila: vedo sulle pagine quello che ho appena mangiato, i mitologici Tortelli di zucca al burro e Parmigiano Reggiano con zucca, amaretti, mostarda (ogni tanto sento qualcuno dire: «Eh, non sono più gli stessi». No, ascoltatemi, sono ogni volta più buoni), e poi la Terrina di astice con caviale Oscietra Royal e olio extravergine toscano, l'Anguilla alla griglia con la verdura dell'orto (per me un saporitissimo e quasi piccante radicchio), la Torta di amaretti con caffè, panna, croccante e zabaione, le tuiles di Parmigiano che sono le ostie con cui si inizia ogni celebrazione. Niente olivelli spinosi, niente salse all'estragone e nigella, niente insalate con cinquantuno ingredienti, niente cosi marinati con gli ultrasuoni, niente frollature estreme, nulla di contronatura. I Santini fanno solo quello che sanno fare come lo sanno fare e con il meglio che hanno sotto mano. Hai detto niente.
Il ristorante di Canneto l'anno prossimo farà cent'anni. Era il 1926 quando Antonio Santini, il nonno omonimo dell'Antonio Santini attuale, aprì con la mogliettina fresca fresca di nome Mazzi Teresa un locale che si chiamava didascalicamente «Vino e Pesce». Teresa in cucina, lui con la barca a pescare sull'Oglio e poi, cambiatosi ma nemmeno tanto, a servire tra i tavoli. La Carpa in teglia di Teresa divenne famosa nel circondario ma ancora di più lo furono i piatti di pasta fatta in casa della Bruna, moglie di Giovanni, figlio di Antonio, agnoli, tortelli, tagliatelle, che a un certo punto le si affiancò. Nuova generazione: arriva il figlio di Giovanni, il nuovo Antonio, classe 1953, che sposa Nadia nel 1974. I due in viaggio di nozze girano per la Francia a scoprire i grandi ristoranti dell'epoca, a provare Paul Bocuse, i Troisgros, Paul Haeberlin e a decidere che sì, loro volevano essere quella roba lì, una destinazione gastronomica di campagna, un luogo per cui valesse la pena di fare due ore (più due) di macchina da Milano.
Nel frattempo «Vino e Pesce» era diventato «Dal Pescatore», erano arrivate le tovaglie bianche, il menu stampato, un filo di pretese e una sporta di ambizioni, qualche cliente che aveva l'uzzolo di raccontare cosa stava succedendo in quell'angolo sperduto di Lombardia, come Gianni Brera (ma anni dopo si affacciò spesso qui anche Vittorio Feltri). Nel 1982 la prima stella, poi la seconda, poi la terza, l'ingresso nei «Relais & Châteaux» e nelle «Grandes tables du monde», l'arrivo in cucina di Giovanni e in sala di Alberto.
La mia cena è finita, ma la serata no. Eccomi nel salotto con Alberto e Antonio, che ha in bocca un sigaro che non accenderà mai. Parliamo di nonna Bruna, morta qualche mese fa, lei che fino a pochi mesi prima ancora talvolta compariva in cucina a mettere bocca su tutto.
Alberto mi racconta con entusiasmo di un suo viaggio in Nuova Zelanda, dove ha scoperto certi Pinot Noir, certi Chardonnay che sono finiti in carta, e il miele di Manuka che è diventato l'ispirazione per quello che i Santini producono nella azienda agricola adiacente, la Cascina Runate, dove si muovono alcuni capi di scottona («ma io non voglio sapere esattamente quanti sono, perché non voglio sapere quale viene macellato», mi confessa Alberto) e poi galline ovaiole, frutteti, l'orto da cui arriva quel radicchio che vi dicevo, e poi undici arnie con le api, che stanno lì perché ai Santini piace, e poi sono sentinelle di un ecosistema sano, quindi il miele è un di più («ne prendiamo poco perché vogliamo lasciarlo alle api»).I Santini, dico io, se non ci fossero bisognerebbe inventarli, ma nemmeno il creatore più ingegnoso potrebbe inventarli così perfetti, maledizione.