Addio a Rodrigo Moya, il fotografo che immortalò il volto malinconico del Che

È morto a 91 anni Rodrigo Moya, il maestro della fotografia sociale latinoamericana. Sua la celebre immagine “El Che Melancólico” (1964), simbolo iconico della rivoluzione.

Rodrigo Moya (Fonte Video)
Rodrigo Moya (Fonte Video)
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Si è spento a 91 anni Rodrigo Moya, uno dei più importanti fotografi sociali dell’America Latina, testimone silenzioso e poetico di rivoluzioni, disuguaglianze e personaggi della storia del XX secolo. Autore del celebre scatto “El Che Melancólico”, che ritrae Ernesto Guevara con uno sguardo perso e un sigaro tra le labbra, Moya è morto il 30 luglio nella sua casa di Cuernavaca, in Messico, dopo una lunga malattia. Accanto a lui la compagna di una vita, Susan Flaherty.

Uno sguardo sulla rivoluzione

Nato nel 1934 a Medellín, in Colombia, da padre messicano, Rodrigo Moya si trasferì in Messico all’età di due anni. Qui iniziò una lunga carriera che lo avrebbe reso uno dei documentaristi visivi più sensibili e rispettati dell’America Latina. Il suo archivio fotografico conta oltre 40.000 immagini, un patrimonio che attraversa 52 anni di storia e ne restituisce l’anima attraverso uno sguardo tanto crudo quanto umano.

Negli anni Cinquanta e Sessanta, Moya documentò rivoluzioni e conflitti che cambiarono il volto del continente: la guerriglia in Guatemala e Venezuela, l’invasione americana di Santo Domingo, la Rivoluzione cubana. Ed è proprio a L’Avana, nel luglio 1964, che scattò la foto destinata a entrare nella memoria collettiva: Guevara malinconico, immerso in una luce sfavorevole, colto quasi per caso con le ultime pellicole rimaste nella macchina. “Il Che sembrava più un artista che un comandante”, disse anni dopo.

Dalla politica alla poesia del quotidiano

La carriera di Rodrigo Moya cominciò nel 1955 nella rivista Impacto, sotto la guida del fotografo Guillermo Angulo. Con la sua sensibilità sociale e il rispetto per ogni soggetto, immortalò grandi personaggi come Gabriel García Márquez, Diego Rivera, John F. Kennedy, ma anche contadini, operai, donne anonime, senza mai fare distinzioni:

La sue parole: "La fotografia è l’approccio più intenso alla vita"

Tra le sue immagini più note: un ritratto di García Márquez prima del successo di Cent’anni di solitudine e uno dopo il celebre pugno ricevuto da Mario Vargas Llosa. E poi scatti che hanno raccontato la dignità di chi vive ai margini, con una chiarezza visiva che non ha mai rinunciato alla poesia. Nel 1968, deluso dalla politica e dalla stampa, abbandonò il fotogiornalismo professionale, pur continuando a scattare per sé. "Avevo due macchine nella testa: una per il lavoro, l’altra per ciò che mi toccava davvero", raccontò.

Riconoscimenti e omaggi

Nonostante una certa ritrosia verso la fama, il lavoro di Moya è stato riconosciuto e celebrato anche all’estero. Nel 2015, la Texas State University e la Etherton Gallery negli Stati Uniti gli dedicarono una retrospettiva, definendolo "metà fotoreporter, metà fotografo di strada".

In Messico, nel 2019, fu omaggiato dal Museo del Palacio de Bellas Artes con una grande mostra per i suoi 85 anni. La sua eredità è oggi più viva che mai: uno sguardo capace di fondere cronaca e sentimento, documento e poesia, lasciando al mondo la traccia visiva di un secolo di rivoluzioni e umanità.

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