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"Tutto chiede salvezza", la poesia dei pazzi nel libro e nella serie Netflix

Il grande succeesso della serie Netflix "Tutto chiede Salvezza", è il frutto del bellissimo libro (Mondadori), scritto da Danele Mencarelli, lui stesso sottoposto ad un tso in giovane età. Proprio Daniele, che è anche uno degli sceneggiatori della serie, racconta nella nostra intervista da cosa nasce il suo bestseller e cosa è per lui la follia.

"Tutto chiede salvezza", la poesia dei pazzi nel libro e nella serie Netflix

Se è vero che la bellezza salverà il mondo, altrettanto farà la poesia. Genere spesso bistrattato, è "cibo" apprezzato dagli "dei" o dai pazzi, che ne fanno spesso un’ancora a cui aggrapparsi per sopportare il "male di vivere" e quella loro visione del mondo unica e totalmente capovolta dal concetto di normalità. Una parola, normalità, che assume però significati dai bordi sfocati quando ci si trova improvvisamente, come Daniele, ricoverati con un tso (trattamento sanitario obbligatorio), circondato e spaventato da quelli che per lui sono veramente i “pazzi”. Inizia così Tutto chiede Salvezza, il meraviglioso libro edito da Mondadori, ora anche una serie su Netflix, scritto da Daniele Mencarelli, che con il protagonista condivide molto di più del solo nome. Come racconta nella nostra intervista, è sì uno scrittore e uno sceneggiatore, ma è prima di tutto un poeta, un grande amante dell’arte di raccontare l’anima, che nella vita gli è servita anche per salvarsi.

Tutto chiede salvezza_banner

Spesso si parte dalla fiction, che tra l’altro sta avendo un enorme successo, per poi parlare del libro. Alcuni però dicono che il suo lavoro è ancora più bello della serie. Lei che lo ha scritto, cosa ne pensa della trasposizione di Netflx di “Tutto chiede salvezza”?

“Essendo coinvolto nella scrittura della sceneggiatura, quando mi fanno questa domanda uso sempre un unico aggettivo: bellissima. Di mezzo c’è anche il fatto che negli ultimi venti anni ho fatto l’editor a prodotti seriali in Rai, quindi quel tipo di linguaggio lo conosco bene e l’ho sempre difeso. Ho sempre capito e apprezzato le differenze che ci sono rispetto al romanzo. Ovvio poi che quando si passa attraverso la letteratura, è normale che una serie possa piacere meno del libro. Questo succede per un fatto meraviglioso che appartiene solo ai libri, dove il lettore utilizza il suo personale immaginario e dà ad ogni personaggio un volto. Quando si passa alla visione, per quanto accurata e ben fatta, non sarà mai aderente alla nostra fantasia. Questo è il primato inarrivabile dei libri”.

Quali sono i cambiamenti sostanziali nella serie rispetto al suo libro?

“Ho proposto, per un motivo preciso, di portare la serie al presente, mentre nel libro è ambientata nel 1994. Perché ho conosciuto tante famiglie, padri e madri di figli finiti male per l’applicazione di tso e ho scritto tanto anche di Andrea Soldi che morì a 45 anni a Torino nel 2015 (dopo essere stato sottoposto a un trattamento sanitario obbligatorio eseguito in un giardino pubblico da tre vigili urbani e uno psichiatra, in modo erroneo e violento, ndr), quindi è una cosa che accade anche oggi, ed era giusto rapportarla al presente. Anche se dal 1994 al 2022, c’è di mezzo una rivoluzione copernicana, dall’era analogica a quella digitale”.

Cosa invece non è cambiato dagli anni Novanta ad oggi?

“In realtà è sempre una questione di fortuna e di dove si capita. Quando ti ritrovi, in un SPDC (reparto della psichiatria all'interno dell'ospedale dove vengono attuati, 24 ore su 24, trattamenti volontari e obbligatori in condizione di ricovero, ndr), che è a tutti gli effetti la prima linea; il dolore degli uomini, provoca anche il dolore in chi li deve supportare. Succede non solo perché gli uomini sono brutti e cattivi, come accade sia nella serie che nel romanzo, ma perché ci sono medici e paramedici che lavorano in quei reparti da 10/15 anni, non si può pensare che quei 'soldato in prima linea' non siano i primi ad abbrutirsi. Allo stesso modo ho incontrato dottori straordinari e grandi professionisti, lavorare con passione e rispettar del dolore di altri esseri umani. È un po’ la stessa cosa che entrare in un’aula di tribunale, bisogna vedere chi abita l’istituzione”.

Parlando di dolore, come si è sentito dopo aver finito di scrivere “Tutto chiede salvezza”

“Faccio un discorso al plurale perché in realtà si tratta di una trilogia anche se, “La casa degli sguardi”, “Tutto chiede salvezza” e “Sempre tornare”, non sono una serie e possono essere letti singolarmente, hanno il filo comune che è l'educazione sentimentale di un ragazzo. Il momento più faticoso l’ho vissuto durante la scrittura del primo 'La casa degli sguardi', che è uscito nel 2018, racconta l'anno che ho lavorato al Bambino Gesù come operaio, un'esperienza fondamentale, tanto quanto 'Tutto chiede salvezza' e il tso che ho avuto. Il trauma vero l’ho vissuto con quello, e sono stato molto male. Quando il romanzo è andato il stampa, e quindi è veramente uscito da me, mi sono ritrovato una mattina di fronte allo specchio con il terrore di vedere riflesso il ventenne di allora, e non il quarantenne con moglie e due figli che sono diventato. Ho avuto proprio un momento di grande reset a livello psicologico, c’è stata in me una sorte di rieducazione alla vita. Ovviamente ho vissuto anche gli altri due con grande tensione, ma sono stati comunque più morbidi”.

Come si riesce così bene a raccontare i dolori dell’anima?

“Da una parte c’è sicuramente il fatto di averli vissuti. Dico sempre di non essere più bravo della realtà a scrivere storie, o ad offrire elementi e spunti. Sono il figlio della realtà che ho provato, non sono più grande dell'esperienza del reale. Per me diventa facile scrivere dei sentimenti quando sono vissuti ed interpretati dagli esseri umani. Il poeta T.S. Eliot parlava del 'correlativo oggettivo', quando l’amore e il dolore diventano un gesto. A me piace raccontare attraverso la realtà, perché il corpo esprime molto di più delle parole. Il sentimento del dolore ad esempio, o quello della tristezza, ci piegano e riescono a cambiare nostri lineamenti. Per questo è impossibile non raccontare le cose attraverso i gesti. Si rischierebbe di cadere nell’ineffabile”.

Paradossalmente il libro, ma anche la serie, sono pieni di “gesti poetici”, non a caso lei con la scrittura ha iniziato proprio dalla poesia.

“La poesia è l’elemento che unifica tutte le forme di scrittura, perché anche i poeti che io amo e che sono tutt’ora per me punti di riferimento, sono grandi costruttori di scene”.

Ripensando alla scena del protagonista del libro quando viene ricoverato e pensa che lui con tutti i pazzi da cui è circondatto non ha niente a che vedere, mi sono venute in mente le due pillole di Matrix. Una per vedere la realtà delle cose, l’altra per vedere il mondo come lo vedono tutti. Sembra quasi che i pazzi del suo libro, sono i pochi che riescono realmente a vedere il mondo come è, rispetto a tutta la gente che vive una finta realtà.

“Penso sia un’ottima lettura qella di scegliere la pillola blu o quella rossa. Ci sono persone che non si capisce per quale motivo, è come se vedessero l’educazione alla civiltà, alla storia, alle convenzioni con dei paraocchi. Tendono a togliere una parte di visuale, rispetto alla verità su di sé e il mondo. Quelli che vengono definiti “pazzi” invece, è come se questi canoni non riuscissero a metabolizzarli. Parlando di follia, ho incontrato tanti ragazzi psicotici, o con il disturbo dell’umore, che quando li senti parlare e ti raccontano del vuoto e del niente, ti fanno rendere conto come ci sia in loro un’incapacità di difesa, rispetto alle convenzioni del mondo. Per me i “matti”, e uso questo termine con grande affetto, così come chi ha alcune patologie o gli artisti, al contrario di tutti gli altri, non vivono in un solco dove riescono a vedere solo metà della visuale”.

Questa però è una visione che crea molto dolore.

“Produce dolore, perché diventa automaticamente interrogativo su quello che siamo. Non hai più obbiettivi mondani, riemergono con tutta la loro forza le domande che spesso troviamo nei libri: quelle sul senso della vita, dove finisce, cosa siamo. Questa spesso viene definita follia”.

Nel libro la paura vivida del protagonista è quella di non comprendere il mondo, o di non esserne compreso?

“Credo la prima, di non comprendere il senso del mondo. Un po’ quello di cui parlavo prima sul primato della realtà rispetto alla letteratura. Lui si trova davanti un teatro sterminato come il mondo, e lo guarda con una lucidità che gli fa credere un po’ meno a certi racconti che alla maggior parte delle persone stanno bene. È proprio questo il viaggio nei miei tre romanzi, a partire dalla bellezza, dall’amore, il dolore, la nostalgia, ovvero tutti quei sentimenti di reazione nei confronti del mondo, che lui non sa come decifrare. È un po’ come qualcuno che si mette di fronte ad cielo stellato con una chiave da meccanico, pensando che si possa svitare una stella”.

Mi verrebbe da chiederle se c’è una soluzione a tutto questo.

“La ricetta per essere felici? È una domanda che mi pongono spesso, ma noi esseri umani non siamo fatti per arrivare ad un approdo definitivo, ma per stare in viaggio. Questo è un po’ il grande tema, qualcosa che ti faccia, pur nell’orrore e nello smarrimento, rimanere aggrappato alla vita”.

Parlando proprio di questo, sia nel libro che nella serie, trovo che ci sia una grande soluzione tipica degli esseri umani, quella che seppur nel buio più profondo, come si trova il protagonista del libro quando viene ricoverato e si ritrova circondato da persone con problemi psichici, trova alla fine in loro degli amici. Un po’ quel 'necessità fa virtù' che in realtà ti porta invece a scoprire nuove realtà e ti fa crescere.

“È così, ed è proprio lo snodo di 'Tutto chiede salvezza'. I miei tre libri sono stati molto apprezzato soprattutto dai giovani, perché credo sia assolutamente naturale cominciare a sperimentare in quella fase della vita l’amore, il dolore e gli interrogativi di cui abbiamo parlato sinora. Ma è altrettanto naturale, purtroppo, tendere oggi molto più di ieri, a viverli in solitudine, cioè a farne fardello personale. A 16/17 anni non vuoi che il mondo ti chieda di essere già uno che ha obiettivi precisi. Molti a quell'età, guardadosi allo specchio non sanno neanche quello che sono, e queste cose nella vita di tutti i giorni non si riescono a condividere neanche con gli amici più stretti, perché il “branco” spesso ti chiede solo performance. Mentre in quell’ospedale Daniele, seppur in un primo momento pensa che con i matti non ha niente a che fare e li evita e quasi li ‘schifa’, può condividere questi temi che appartengono anche a loro”.

L’unione ci salverà?

“Quando mi ritrovo a parlare con i ragazzi, faccio sempre l’esempio di una cattedra. Alzarla da soli è impossibile, ma se si è in 10, diventa semplice. L’essere umano non è fatto per vivere in solitudine. Spiegarlo ai giovani, significa non concepire l’altro come un avversario o un nemico, come siamo abituati a pensare, ma come un alleato che rispetto a questi temi il più delle volte non ha risposte come noi, e come noi vive questo disagio. Questa è la grande rivoluzione di Daniele in ‘Tutto chiede Salvezza’”.

Come immagino avrà letto dell'enorme richiesta del bonus psicologo ha avuto richieste enormi soprattutto da parte dei giovani. Secondo lei la gente è sempre più malata o ha solo aumentato la consapevolezza?

“Questo è sia il dubbio che il grande motivo, per cui esiste ‘Tutto, chiede salvezza’ ed è la domanda fondamentale che ci dobbiamo porre rispetto ai nostri figli, ai nostri nipoti. Io sono stato un uomo assolutamente borderline, rispetto al disagio psicologico e psichiatrico; però da adolescente ho avuto la fortuna di scoprire la letteratura e la poesia. Ho avuto una lingua con cui esprimermi, da contrapporre a chi vedeva in me soltanto un giovane depresso, con un disturbo della personalità. Questo è stato fondamentale, perché il vero male è la solitudine del pensiero. Il fatto di pensare di essere gli unici a non poter rispondere alle domande della nostra anima”.

I pazzi quindi sono tutti poeti decadenti?

“Io sono il primo a riconoscere l’importanza delle cure farmacologiche perché in passato ne ho avuto bisogno, però grazie alla poesia ho scoperto che l’uomo da sempre vive, si interroga e soffre su questi temi. Intervenire con i farmaci è sacrosanto per lenire l dolore quando diventa troppo forte, ma non si deve neanche togliere la curiosità verso noi stessi, lo stupore di stare al mondo. Altrimenti davvero il mondo diventa Matrix”.

A cosa sta lavorando ora?

“A quello che sarà il mio prossimo romanzo che uscirà all’inizio del nuovo anno”

Può anticipare qualcosa?

“Sto vivendo un po’ un nuovo esordio in narrativa dopo aver finito quella che considero una trilogia che mi ha comunque cambiato la vita e portato molta fortuna.

Come dicevo considero la scrittura una grande forma di testimonianza del presente, ma rispetto agli altri libri quello che sto ultimando sarà un po’ più fiction”.

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