
Per gentile concessione dell'editore Mursia pubblichiamo un estratto dell'ultimo romanzo di Fabrizio Carcano, La notte del diavolo, che racconta la nuova indagine milanese del commissario Ardigò.
Dallo stesso apparecchio pubblico, nel porto di mare del principale corridoio dell’ospedale San Gabriele di Milano, quella mattina alle 8 erano partite due telefonate consecutive, fatte con la stessa scheda telefonica, gettata nel cestino poco distante, insieme ai guanti in lattice. Zero impronte, zero possibilità di risalire al delatore: tanto nessuno avrebbe cercato quella scheda, utilizzata per una duplice identica denuncia.
Un cadavere li aspettava.
La prima telefonata era indirizzata al centralino del co- mando regionale dei Carabinieri, alla caserma di via della Moscova; la seconda a quello della Questura della Polizia di Stato di via Fatebenefratelli.
In entrambi i casi l’operatore aveva chiesto le generalità alla voce maschile dall’altra parte della cornetta, ricevendo solo il silenzio come risposta.
Due telefonate gemelle per indicare ai Carabinieri e alla Polizia dove trovare il loro rispettivo cadavere, quello di una donna e quello di un uomo.
Le due telefonate non sarebbero state ricollegate per diversi giorni. Uno dei tanti errori di un’indagine difficile. L’afa aveva traslocato da giugno a luglio senza perdere la sua carica aggressiva, sempre ostile e spietata.
Quella notte il vice questore Bruno Ardigò, responsabile della sezione Omicidi e Reati contro la Persona, non era riuscito a dormire. Appena un paio di ore, forse, rigirandosi nel sudario del lenzuolo, infastidito dal russare del cane, Frog, che ronfava beatamente in qualunque stagione dell’anno.
La telefonata giunse in quel momento.
Stavolta senza la solita frasetta di rito.
Una volante era andata a verificare dopo una segnalazione anonima. Un sopralluogo complicato, ma dall’esito positivo, dove l’accezione di positivo era da intendersi negativamente: c’era davvero un cadavere come annunciato dall’ignoto al telefono.
Toccava a lui, toccava al Cacciatore di Caini. L’epidemia ci avrebbe reso tutti più buoni.
Quante volte durante il lockdown, in quelle sere interminabili davanti alla tv, aveva ascoltato questa frase del cazzo. Era bastato riaprire le gabbie per essere smentiti: gente che smadonnava al pedone che aveva il solo torto di attraversare la strada sulle strisce, insulti per una freccia messa in ritardo, bestemmie per l’autobus che tardava di un giro di lancette, tutto il routinario repertorio di un pentolone torna- to in perenne ebollizione.
E quello che aveva davanti agli occhi, neanche increduli, lo confermava.
Ardigò non aveva fretta.
Sul posto c’erano gli agenti del commissariato di zona di Turro, poi quelli della Mobile e pure i suoi uomini lo sta- vano precedendo, manco andassero a un raduno del corpo della Polizia di Stato.
Aveva deciso di andare a piedi per farsi una passeggiata di qualche chilometro, risalendo da piazzale Loreto e poi su per viale Monza. Camminando osservava sul tablet le foto inviate dalla scena del delitto.
Una scena da incubo, in un déjà vu già visto e già vissuto in passato.
Era già stato lì sotto una volta, sette anni prima: era sempre estate e si crepava dal caldo.
Ricordava bene quella mattina terrificante, dopo una notte insonne, che lo aveva condotto in quella specie di pozzo senza acqua.
Indagava su una escort decapitata nei giorni del solstizio estivo e gettata nel Naviglio Martesana nuda, avvolta in un lenzuolo che pareva il sudario della Sacra Sindone.
Quella notte, seguendo un tortuoso filo investigativo, erano arrivati in un anonimo appartamento di un condominio poco distante, da lì avevano seguito delle tracce ematiche evidenziate dal luminol che, partendo dai piani alti, li avevano guidati, lui e un manipolo di sbirri, nel vano cantine, davanti a una porta metallica sbarrata. Una volta sfondata la porta, avevano scoperto un pertugio occultato che immetteva in una vecchia galleria di pietre murarie, lunga una ventina di metri, che li aveva condotti fin lì, in quel pozzo.
Nel Tempio della Notte.
Un luogo reale di leggende ammantate di crudeltà, un tempio ipogeo utilizzato dai massoni come dai carbonari, all’interno del parco di una villa ottocentesca, Villa Finzi, diventata un giardino pubblico. Era in quel buco nero che si era consumata l’orgia satanica in cui era stata soppressa quella malcapitata.
Sette anni dopo i suoi uomini erano di nuovo lì, negli stessi giorni di inizio luglio, sulla stessa scena dello stesso film dell’orrore, come fosse un sequel con i protagonisti invecchiati, lui, i suoi vice, gli agenti.
L’entrata superiore del pozzo fino a un paio di ore prima era sbarrata da una grata metallica per occluderne l’accesso: molti ragazzi si divertivano ad andarci sopra, lanciando roba nel buco, a volte anche siringhe. Per questo ogni tanto, la notte, in estate, qualche agente del commissariato di zona passava di lì, nel parco della villa, a buttarci un occhio.
Quella mattina non erano andati per un controllo.
Allarmati dalla telefonata anonima giunta in Questura, una pattuglia era stata inviata per verificare.
Dalla grata lo avevano visto: un enorme sacchetto di immondizia, di quelli di cellophane nero, proprio come annunciato dal delatore anonimo. Abbandonato sul fondo di pietra, tra altri detriti, bottiglie, lattine e tutto quanto sozzava il pavimento di quel tempio pagano profanato dall’incuria e dall’inciviltà urbana.
Un olezzo infernale li aveva persuasi ad avvertire la sala centrale e, a seguire, i colleghi della Municipale e quelli del nucleo disinfestazione della Ats.
Nel giro di un’ora due operai comunali avevano rimosso la grata metallica per consentire la discesa degli agenti invia- ti dal commissariato di Turro che avevano fatto la macabra scoperta una volta reciso il cellophane.
Vermi e insetti avevano traforato il nylon penetrandolo per cominciare a succhiare i tessuti epidermici del cadavere violaceo e putrescente.
L’uomo era legato, mani e piedi bloccati da un nastro adesivo nero. La bocca sigillata con lo stesso nastro. Gli occhi sbarrati, cristallizzati nel terrore della morte che lo avvolgeva al buio, dentro un sacco nero, in fondo a un pozzo asciutto, togliendogli l’ossigeno.
Era rannicchiato in posizione quasi fetale.
Nessun indumento, nudo. Graffi ed ecchimosi ovunque.
Una costellazione di tatuaggi inquietanti sulla pelle tendente al color cobalto, in avanzato stato decompositivo. In quell’orifizio si potevano calare a turno, con una scala fornita dai Vigili del Fuoco.
Ardigò era arrivato lì un’ora dopo gli «scopritori». Non aveva nessuna voglia di scendere in quel luogo maledetto.
Sette anni prima si era infilato in quel buco del diavolo seguendo le tracce di quella povera donna decapitata: cercava la verità su quell’omicidio e, invece, là sotto aveva trovato il cadavere di un’altra donna, amica e collega, anche lei decapitata.
Erano due escort sventurate che avevano partecipato a un rito demoniaco nella notte del solstizio estivo, la notte di San Giovanni Battista, il profeta decollato, come loro. Era arrivato in quell’antro seguendo il bandolo di un’inchiesta che lo aveva portato a sfiorare il cuore del male, senza agguantarlo, e sette anni dopo era di nuovo lì, in perfetta coincidenza cronologica con la notte del solstizio, trascorsa da appena due settimane.
E quel cadavere sembrava raccontare quello che aveva in mente: un altro raccapricciante rito satanico. Quindici giorni prima, nella notte del solstizio, della festa pagana della Litha, quando nella tradizione contadina si eseguivano sacrifici animali per offrire sangue fresco, sangue caldo, alla divinità del sole, che da quel momento avrebbe cominciato a decrescere, perdendo forza. Gli agenti della Mortuaria e della Scientifica, esauriti i rilievi, stavano preparando il corpo per la rimozione. Lui lo osservava dall’alto senza decidersi a scendere per incontrarlo viso a viso.
Anche da quattro metri di distanza vedeva quello che doveva vedere.
Al collo un massiccio medaglione. Un pentacolo demoniaco per i profani, un sigillo di Baphomet per l’occhio del capo della Omicidi, allenato da due decenni di inchieste sul nero più nero delle sette sataniche.
Un demone dalle fattezze caprine inserito nel pentacolo rivolto verso l’alto, interno alla stella a cinque punte rovesciata verso il basso, contornata da un rettile oroboro, che si inghiotte la sua stessa coda, un mostro degli abissi marini, a rappresentare il Leviatano che emerge dall’oscurità e a sigillare quel simbolo con cinque lettere ebraiche.
Quei ciondoli erano facilmente reperibili sulle bancarelle nei mercatini delle pulci, tra gli appassionati di simbologia o di musica metal anni Ottanta.
Non bisognava per forza essere veri satanisti per averne uno e infilarlo al collo. Migliaia di idioti sfoggiavano simili pendagli.
Ma questo, che probabilmente idiota lo era comunque, era stato asfissiato in un tempio utilizzato dai satanisti in concomitanza con il solstizio estivo.
Non erano coincidenze, come non lo erano i tatuaggi. Il corpo di quell’uomo rappresentava un’autentica mappa demoniaca.
La schiena era dominata da una serie di triangoli rovesciati e intersecati per formare croci oblique da cui emergevano una X e una V; su un avambraccio una croce nera e l’immancabile 666; sul braccio sinistro l’oroboro nero, che partendo dal polso si arrotolava con le sue spire risalendo dal gomito al bicipite fino alla spalla, dove brillavano i suoi occhi gialli mentre la bocca inghiottiva la coda che spuntava dall’ascella.
Il medico legale stava armeggiando con il cadavere, un uomo robusto, sui quaranta.
Sotto i tatuaggi risaltavano vistose cicatrici disseminate lungo tutto il braccio sinistro e la coscia sinistra, ma erano datate. Roba di anni, decenni.
«Decesso per ipossia» stava sentenziando il coroner con un’espressione disgustata per il morto e per quel buco fetido dove si trovavano.
Il Cacciatore di omicidi si decise a scendere in quel luogo sorprendente e di origine misteriosa.
Villa Finzi è uno dei tanti gioielli del patrimonio ambientale e architettonico milanese sconosciuto ai più. Ignorata più che ignota, tranne che per quelli del quartiere.
Nel 1829 un nobile ungherese, un ufficiale imperiale dell’Esercito austriaco distaccato a Milano, il conte Batthyány, aveva fatto edificare quella maestosa villa sui resti di una vecchia fattoria in quel tratto di campagna, tra la Martesana e il borgo di Gorla, a due passi dalle porte della Milano asburgica.
Il conte, personaggio eccentrico, aveva richiesto ai suoi architetti di allestire nel giardino un cerchio neoclassico con colonnato e copertura, per godere all’ombra di piacevo- le compagnia, ribattezzandolo il Tempio dell’Innocenza, o Tempio della Luce, tutt’ora presente e visitabile nel giardino nella villa, sovrastato da un accogliente pergolato di glicine.
Poi, scoperti i cunicoli naturali di vecchi fontanili prosciugati, aveva richiesto anche un secondo tempio, sotterraneo e occultato.
Forse esisteva già, forse era una grotta naturale, oppure una voragine scavata come ghiacciaia dai precedenti proprietari di quella tenuta agricola.
Modellato sullo stile del celebre Pantheon, lo aveva ribattezzato il Tempio della Notte.
Un basamento circolare, dodici colonne classiche con capitelli scolpiti a reggere la struttura con soffitto a camino e il classico oculo, il buco rivolto al cielo, che si apriva sul terreno erboso del giardino. L’interno rivestito di pareti in mattoni.
Un punto era stato sfondato.
Non era quello da cui erano entrati nel 2013. Dei muratori bergamaschi avevano ricostruito abilmente la parete in mattoni poche settimane dopo.
Questo era un nuovo orifizio, che si snodava in un’altra galleria, sempre in mattoni scrostati.
Evidentemente il conte Batthyány aveva fatto predisporre una serie di condotti alternativi in caso di necessità.
Si trovavano a sei metri sotto il livello del suolo.
Quella galleria – spiegavano gli agenti – conduceva dopo una sessantina di metri fino agli scali ferroviari, dove sbuca- va in un’altra apertura. Non c’erano diramazioni secondarie nel condotto del tunnel.
«Adesso sappiamo come sono entrati» borbottava il capo della Mobile, il vicequestore Michele Sironi, osservando i detriti sul fondo del pozzo, vetri infranti, mozziconi di sigaretta, cartacce, odore di urina e una maglietta nera con una A bianca.
Dall’orifizio gettavano rifiuti ed escrementi, come fosse una discarica.
Tuttavia, quel degrado escludeva che in quel budello si fosse svolto un rito satanico.
Ardigò si riempiva le narici di quel tanfo poco balsamico. Odore di morte, odore di sporcizia.
L’ideale per un’indagine che prometteva tutto il peggio che ci si potesse attendere. E forse anche oltre.
Un tecnico della Scientifica stava applicando il luminol al terreno.
«Tracce ematiche: è sangue.»
A occhio nudo non si vedeva nulla.
Ardigò si voltò verso il medico legale che scosse la testa. «La vittima non ha ferite o lesioni che possano aver generato un’emorragia.»
Nel terreno erboso c’erano anche micro detriti tessili, gli agenti li stavano repertando.
«Anche sulla maglietta tracce ematiche.»
Uno di loro sorrideva, soddisfatto: «Possiamo estrarre l’eventuale DNA».
Il capo della Omicidi annuiva, scettico.
Il DNA di chi? In quel buco infernale poteva essere passato
chiunque fosse a conoscenza di quel tunnel che si snodava dagli scali ferroviari.Tossici, senza tetto, balordi da due lire che potevano essersi feriti in ogni modo, con vetri, lattine o altro. Stavano solo perdendo tempo.
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