Le cause della crisi? Troppo Stato e troppo benessere

"L'enigma della crescita" esamina le radici, che risalgono agli anni '60, dello stallo attuale. Con l'Italia a fare da cavia

Le cause della crisi? Troppo Stato e troppo benessere

Un tratto fondamentale del nostro tempo non abbastanza preso in esame è il declino dei Paesi di tradizione europea. Oggi l'Occidente è assai meno al centro della scena di quanto non fosse anche solo vent'anni fa e tutto lascia pensare che la sua marginalizzazione aumenterà negli anni a venire. E d'altra parte la società occidentale è in primo luogo prigioniera di trappole culturali che ha essa stessa predisposto e da cui fatica a liberarsi. Basti pensare alle teorie che elogiano - contro l'economia e contro l'innovazione - la decrescita. Un autore come Serge Latouche dopo una lunga marginalità è oggi quasi un'icona in vari ambienti culturali e politici, a partire - in Italia - dalla stessa area grillina. L'aspirazione a non crescere è essenziale in quella nuova moralità che abbraccia pure taluni settori del mondo cattolico, la destra anti-capitalistica, taluni post-marxisti e altri ancora. In questo senso è positivo che Luca Ricolfi torni invece a focalizzare l'attenzione sui problemi e le difficoltà della «non crescita» e, in maniera specifica, sulla frenata dei Paesi storicamente più avanzati, che sembrano in grande difficoltà e non sembrano proprio in grado di individuare vie d'uscita. Nel suo ultimo lavoro, L'enigma della crescita (Mondadori, pagg. 272, euro 19), utilizza una metodologia dichiaratamente empirica basata sull'analisi di dati per esaminare e valutare ipotesi teoriche e prospettive ideologiche di vario tipo: il tutto alla ricerca di soluzioni di fronte alle difficoltà di economie che hanno smesso di avanzare e migliorare.

Fin dalle prime pagine del libro Ricolfi sottolinea come il rallentamento della crescita dell'Occidente sia fuori discussione. Economie che in media crescevano del 4% negli anni Sessanta hanno cominciato ad aumentare al ritmo del 3%, e subito dopo del 2% e ora dell'1%. La crisi ha fatto il resto e d'altra parte essa non è la conseguenza di un'invasione di extraterrestri, ma la fase acuta di una malattia molto radicata. Il dibattito sulle ragioni del declino è vasto e certamente ogni spiegazione si espone al rischio della semplificazione. È difficile però non avvertire come economie che nel corso del Novecento hanno visto crescere di cinque volte la spesa pubblica debbano interrogarsi sul rapporto fra il crescente peso dell'apparato politico-burocratico e lo sclerotizzarsi dei sistemi economici e sociali. I sistemi economici dell'Occidente non crescono perché l'area parassitaria è cresciuta a scapito di quella produttiva, perché il sistema dei prezzi di mercato è costantemente perturbato dall'interventismo regolatorio, perché la centralizzazione impedisce agli attori economici di utilizzare al meglio le informazioni specifiche di cui dispongono. Ma un'economia che non cresce e che non fa profitti è un'economia che si rivela incapace di soddisfare le attese altrui, dato che quando un'azienda ha successo sul libero mercato questo avviene perché sa andare incontro alle esigenze soggettive dei consumatori. Un Paese che non cresce è dunque un Paese in cui chi lavora non riesce a rispondere alle richieste dei destinatari di quei beni e servizi.

Nella sua analisi, elaborata a partire da un'ampia letteratura teorica principalmente economica, Ricolfi evoca alcuni fattori cruciali per la crescita: il capitale umano, gli investimenti esteri, le istituzioni e la tassazione. A questi fattori ne aggiunge un quinto, e cioè il benessere, dal momento che più un Paese è ricco, meno facilmente cresce. Per quale ragione? Probabilmente più d'una, ma sicuramente è vero che l'espansione economica generata dagli scambi di mercato ha storicamente permesso la crescita del potere statale e di conseguenza la crisi del capitalismo medesimo. Sono stati insomma i capitalisti a fornire al loro boia la corda con cui, alla fine, verranno impiccati. Con intensità differente da area ad area, questo vale per l'intero Occidente, ma in tale quadro generale l'Italia gioca davvero un ruolo particolare. La patologia del nostro Paese potrebbe però anticipare difficoltà che presto interesseranno altre economie, sebbene non manchino talune peculiarità tutte nostre, legate anche all'artificiosa unificazione ottocentesca, che ha messo insieme economie regionali molto diverse e lontane. Da tutto questo discende, in Italia, un'incapacità a comprendere i problemi che Ricolfi sintetizza con queste parole: «non solo attribuiamo i nostri guai alla crisi, ai mercati finanziari, ai vincoli europei, alla moneta comune, ma ci illudiamo che dalla crisi potremo uscire grazie agli altri: la ripresa dell'economia mondiale, che dobbiamo solo “agganciare”; le autorità europee, che dovrebbero essere un po' più flessibili sui nostri conti pubblici; la Banca centrale europea, che dovrebbe darci una mano acquistando buoni del Tesoro».

In fondo, questa cultura della «dipendenza» è una specificità italiana, d'accordo, ma è pure una caratteristica dello statalismo a ogni latitudine. Se non si liberano le energie degli individui e delle comunità, ogni speranza di crescere è vana.

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