Cultura e Spettacoli

Così Suor Intingola ingolosiva il Vate

Menù, confidenze, delizie e inappetenze: il rapporto tra D'Annunzio e il cibo

Così Suor Intingola ingolosiva il Vate

A d'Annunzio sarebbe piaciuto questo libro, come gli piacevano tutte le cose belle ed eleganti. E probabilmente gli sarebbero piaciuti anche i menù proposti in suo onore alla fine, lui che alla cuoca chiedeva a gran voce «can-nel-lo-ni can-nel-lo-ni», cotolette semplicemente ben battute e frittate. In sé, l'atto del mangiare gli appariva un'esigenza fisiologica grossolana, e proprio per questo anche il cibo, a casa d'Annunzio, diventava fonte di piacere, di coinvolgimento emotivo, di seduzione, di bellezza: «Se la fame e la sete sono gli impulsi primitivi ed essenziali nell'uomo, nella bestia - l'associare tali impulsi a “valori estetici” è un servire la causa della cultura ben più efficacemente che le noiose e oziose dissertazioni morali e filosofiche», scrive in un appunto.

Per Gabriele si trattava di sottrarre l'idea del cibo al suo utilizzo primario; l'idea di nutrirsi gli suscitava repulsione, gli suggeriva la fratellanza dell'uomo con la fiera: «Mi sembra più bestiale e umiliante riempire il triste sacco, rifocillarmi, che abbandonarmi all'orgia più sfrenata e più ingegnosa». Il che non significava che la sua mensa languisse, anzi: in cucina abbondavano le «inezie squisitissime»: anche il peccato di gola si liberava, insieme agli altri, di censure medievali o bigotte, recuperato a pieno titolo nel diritto dell'uomo a vivere bene.

Albina Lucarelli Becevello, questo il nome della Cuoca Pingue, o Suor Intingola, o Suor Indulgenza Plenaria, o Suor Ghiottizia, è una veneta di Paese, comune del trevigiano. Nata nel 1892, è al servizio di d'Annunzio (e lo sarà fino all'ultimo) da quando aveva mostrato la propria arte a Venezia, nel 1916. Alla cuoca, per motivi estetici, vengono risparmiati gli assalti sessuali. In compenso è disponibile a servire il «paron», compiacendone le richieste stravaganti, in ogni momento e a qualsiasi ora, e ne accoglie anche le confidenze: «Chiara Albina - le scrive una notte il Comandante - da otto giorni non chiavo. Inutile che tu mi mandi gli zabaioni non avendo bisogno di raddrizzare la schiena. Mandami piuttosto una mona sottile». Se ha bisogno soltanto di un brodo caldo o di un tè chiama Emilia, la cameriera, e già che c'è spesso le chiede anche altri conforti: se la donna si nega (capita, nonostante le mance generose che ne ricava), a volte deve fuggire perché d'Annunzio le scaglia contro la tazza. Con la cuoca è diverso. Il Vate, al lavoro nell'Officina, si duole con lei di averla svegliata nel cuore della notte per farsi preparare un pasto: «Mia cara cara Albina, so che a quest'ora sei tutt'ora in piedi; e me ne dolgo. Il disordine della mia vita senza orario non deve turbare il tuo riposo. Io mi contento di tutto. Ma queste tarzette di pasta sono squisitissime». Gabriele le fa arredare la cucina - ampia e luminosa - badando, per una volta, più alla praticità che a bellezza e originalità: zoccolo di mattonelle, mensole, tavole robuste, rastrelliere. Ci sono anche alcuni ritrovati della modernità, come una splendida ghiacciaia, accanto agli strumenti più tradizionali, per esempio quello per fare gli abruzzesissimi spaghetti alla chitarra. Dalle lettere alla cuoca emerge un rapporto confidenziale e affettuoso, animato da componimenti scherzosi, passi in dialetto veneto e accenni di tenerezza. Padre Priore, come spesso si firma Gabriele, chiude sovente con abbracci e benedizioni. \ Ora non resta che un brindisi, la conclusione del lunghissimo brindisi in poesia che scrisse poco più che ragazzo, e che è stato da poco ritrovato. Vi si legge anche quel saluto che il fascismo avrebbe fatto proprio, quarant'anni dopo: «Sbornia perfetta/ Piena superba/ Con l'anisetta/ O la centerba.

/ In alto i cuori!/ Eja, alalà».

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