Firenze come l'Italia intera: incapace di abbandonare l'ostinazione con cui cerca di conservare, in modo rigido e chiuso, il proprio passato; e incapace di superare il degrado (documentato) della città aprendo ai privati. È questa la tesi del nuovo pamphlet di Luca Doninelli, Salviamo Firenze (Bompiani, pagg. 124, euro 12; in libreria dal 3 ottobre) di cui pubblichiamo qui uno stralcio. L'autore individua alcune grandi colpe di una città che col vedutismo da «camera con vista» improntato al gusto anglosassone e con la sua cronica povertà progettuale ha tradito la sua radice profonda: quel Rinascimento rivoluzionario che Filippo Brunelleschi, pensando non ai potenti ma ai poveri, fece nascere nel 1419 nella Piazza SS. Annunziata sotto le logge dello Spedale degli Innocenti. Per uscire dalla crisi, Doninelli propone una serie di (serissime) provocazioni: fare di Palazzo Strozzi il tempio della Apple; trasferire il David al Louvre; trasformare con l'aiuto di qualche archistar quel «quadrato chiuso a ogni bellezza» che è Piazza della Repubblica; affidare a un giovane architetto il progetto della facciata di San Lorenzo. Solo così Firenze e l'Italia intera potranno risollevarsi dall'inerzia culturale.
Il David. È la scultura più famosa di tutti i tempi. L’uomo rappresentato nella scultura è l’uomo più bello di tutti i tempi. La forza dello sguardo che il giovane Michelangelo seppe imprimere nel marmo è uno dei miracoli più sconcertanti della storia dell’arte:il gigante Golia è lì, dentro quelle pupille di pietra: come Foreman a Kinshasa nel 1974 non è ancora caduto ma il Destino ha già fatto conoscere il proprio verdetto, e David ne ha paura, perché sa che, davanti al Destino, cioè a Dio, vincere e perdere sono la stessa cosa. I suoi glutei perfetti fanno comprendere a ogni uomo, anche al più alieno da questo genere di pensieri, che l’omosessualità è presente e ben radicata, con il suo mistero escatologico, in ciascuno di noi. Le sue mani sono una scultura nella scultura, opera d’arte autonoma e binaria,confutazione definitiva di ogni determinismo e darwinismo, figlie della catena evolutiva e insieme assassine della stessa, istitutrici della specie homo , e del mistero che si porta appresso. La sua grazia semidivina, figlia degli scorticamenti illegali dei cadaveri in qualche anfratto di Santo Spirito, ci ricorda – se Dostoevskij, Bacon e tanti altri non fossero sufficienti –di quanta bellezza siamo debitori alla morte, alla violenza e alla decomposizione, e quanto Destino (quanto Dio...) ci mettano a disposizione questi fatti spiacevoli. Qui, però, interviene una specie di slogatura. Se, come fu detto, tutta la filosofia è un commento a Platone, allora tutto il Rinascimento è un commento al Brunelleschi e alla sua Cupola. Anche il David nasce da questo ambito, però al tempo stesso indica un punto di fuga: Michelangelo non è un rinascimentale, è Michelangelo e basta (così come Caravaggio, per intenderci, non è un tardo manierista). Firenze non possiede la chiave di lettura adeguata per capire Michelangelo, David incluso. La chiave si trova a Roma, dove si svolse la parte più importante della storia di Michelangelo, oppure si trova disseminata nel mondo, che ha adottato alcune opere di Michelangelo – specialmente David e Adamo – a icone universali, simboli di tutto ciò che l’ingegno umano ha prodotto e produrrà, dagli abiti di Armani al computer più sofisticato, dalla teoria delle stringhe all’ultimo modello Ferrari, per arrivare infine alla conquista del Punto Medio, vero Eden moderno e postmoderno, il cui possesso significa il potere assoluto sul mondo: la Fiat Panda, la caffettiera Bialetti, lo shampoo Garnier, i surgelati Findus.
Di questa Medietà Assoluta, che fa dell’opera d’arte qualcosa di più che un’opera d’arte (Andy Warhol ci insegnò che tutto può essere opera d’arte, Michelangelo ci insegna che l’opera d’arte può essere tutto), ci è testimone la fila, pressoché quotidiana, che staziona, lunghissima, davanti all’ingresso della Galleria dell’Accademia, dove come tutti sanno è custodito il David. Lo spettacolo di questa folla incolta che, non appena pagato il biglietto, si precipita verso il David ignorando – ne abbiamo già parlato – alcune tra le opere d’arte più importanti di ogni tempo dice a chiare lettere che tra il David e i Prigioni (che di per sé non sono da meno del David)c’è un abisso simbolico.
Da tutte queste considerazioni nasce la prima delle mie proposte folli: quella di trasferire il David a Parigi. Le ragioni sono tante. La prima è che Parigi è la Teca, lo showroom della storia. Il David sta un passo oltre Andy Warhol, e rappresenta quel ritorno all’Europa che appartiene all’arte in quanto tale, e che nulla ha a che vedere con il dominio americano, o cinese che sia. Marc Fumaroli ha illustrato questo movimento profondo nel suo magistrale Paris
New York et retour . La seconda ragione è che Firenze non può sopportare un impatto come quello a cui il David la obbliga.
La presenza del David è fonte di degrado urbano: carte e lattine per terra, scritte sui muri e ogni specie di maleducazione. Il problema non è quello di evitare tutto questo con una ricollocazione più avveduta del capolavoro, ma di fare i conti con la natura del capolavoro, che è una natura diversa rispetto alle altre opere custodite nei musei e nelle gallerie fiorentine. La terza ragione è che il David è a tal punto il manifesto pubblicitario di Firenze da non poter stare a Firenze. Il Louvre è il luogo adatto, Parigi è la città adatta, perché Parigi è l’introduzione, l’ avantpropos di tutta la civiltà europea.
La quarta ragione è che il trasferimento del David sarebbe l’evento artistico e culturale del secolo, che tutto il mondo si girerebbe da questa parte, che New York perderebbe ogni centralità culturale, e che Firenze ne ricaverebbe un enorme beneficio: non si tratterebbe affatto di esiliare una grande opera d’arte, ma solo di portare nel mondo, con un evento dalla forza dirompente (immaginiamo il suo impatto mediatico) il «made in Florence».
Palazzo Strozzi. È oggi una tranquilla sede di mostre di discreto livello medio, talune di ottimo livello. [...] Ma quella di Palazzo Strozzi resta una Firenze, al massimo, da quarto posto ai campionati italiani. Davanti a Milano, ma dietro Roma e Napoli, e quasi di certo anche a Torino. Creare centri espositivi per uniformarsi al nuovo standard nazionale è senz’altro una bella iniziativa, forse Firenze potrà competere con Torino e Napoli, il secondo posto potrebbe non essere più una chimera, ma questo sarà tutto. Certo, un nuovo spazio a Firenze non rischierebbe, come altrove, di ridursi a una scatola vuota, quando non a un pretesto per entrare nella danza delle direzioni artistiche e delle sovrintendenze. Ma questo non esimerebbe la città da una critica fondamentale: quella di essersi (di nuovo) accodata, di non aver tentato vie nuove. Per non accodarsi, Firenze deve – ancora una volta – attentare ai propri simboli. Propongo perciò di trasformare Palazzo Strozzi in un grande Museo Apple. La casa di Cupertino rappresenta in tutto il mondo il lato umanistico della rivoluzione informatica. [...] Il modello-Jobs che si è imposto nel mondo è quello di un mondo, quello informatico, che ruota intorno all’Uomo. Forse anche gli altri hanno lavorato in questa direzione, ma è un fatto che ad Apple sia riuscito di imporre nel mondo questa idea come propria. Può essere soltanto la vittoria di una strategia comunicativa migliore –così almeno dice qualcuno. Invece non è così. La strategia comunicativa risiede infatti in qualcosa di fondamentale: la bellezza dei prodotti. I prodotti Apple sono più belli degli altri. [...] Apple è quanto di più simile al Rinascimentoesista nel cosiddetto mondo postmoderno. E ne possiede la stessa forza dirompente. L’idea che lega questi due fenomeni apparentemente lontani intere galassie è quella secondo cui solo la bellezza, con la sua persuasività immediata, può stabilire un contatto tra l’innovazione e la vita di ogni giorno. [...] Per questo immagino Palazzo Strozzi come la sede naturale, predestinata di un grande museo in cui arte e tecnologia, tradizione e innovazione, studio e artigianato ( anche la tecnologia è perlopiù una questione di bottega artigiana) dimostrino, come accadde nel Rinascimento, la loro buona disposizione a camminare insieme. Voglio precisare che qui stiamo parlando di un vero e proprio passaggio di proprietà.
È questo il punto veramente rivoluzionario: Palazzo Strozzi non deve essere affittato o prestato ad Apple, ma venduto. [...] È tempo di metterci il cuore in pace: Firenze non si salverà se non grazie all’intervento dei soggetti privati.
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