Cronache

Cento anni fa la Marcia su Roma: cosa accadde il 28 ottobre 1922

Il 28 ottobre di cento anni fa le colonne fasciste si fermarono alle porte di Roma. Si apriva così la ventennale parabola mussoliniana

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Il 28 ottobre di cento anni fa le colonne fasciste si fermarono alle porte di Roma in attesa del loro duce che, due giorni dopo, le raggiunse viaggiando in vagone letto. Dopo aver conferito con Vittorio Emanuele III - “Maestà, vi porto l’Italia di Vittorio Veneto” - il 30 ottobre Benito Mussolini, nuovo presidente del Consiglio, presentava il suo governo, comprendente solo tre fascisti. Una sorta di “matrimonio di convenienza” tra l’establishment e un fascismo - visti i rapporti di forza e l’iniziale impreparazione “governista” dei suoi quadri - obbligatoriamente pragmatico e inclusivo. Un compromesso esiziale che si prolungherà ambiguamente, tra accelerazioni movimentiste e resistenze conservatrici, sino al redde rationem del 25 luglio 1943.

Si apriva così la ventennale parabola mussoliniana, una pagina di storia contradditoria e ancora lacerante che ricorda le pitture di Caravaggio e Rembrandt, un continuo contrasto tra luci e ombre. Tinte forti, cupe rischiarate da improvvisi bagliori. Su quell’esperienza, drammaticamente e definitivamente conclusasi il 28 aprile 1945 sul lago di Como, gli storici, risalendone le cause e gli sviluppi - Renzo De Felice in primis - hanno dato da tempo il loro giudizio inequivocabile.

Si trattò di un fenomeno originale e irripetibile che ci riporta al 1919, quando all’indomani della vittoria, l’intero edificio post-risorgimentale monarchico e liberale, scosso dal “biennio rosso” e la parallela ascesa del movimento fascista, iniziò a traballare pericolosamente. Un sisma politico (e generazionale) alimentato dalla rabbia di importanti spezzoni del proletariato operaio e contadino, affascinati dai richiami della rivoluzione leninista, e dall’opposto rancore (e dalle molte speranze) di milioni di reduci. Il “partito del fronte”. I veterani dell’Isonzo e del Grappa, del Col Moschin e di Premuda. Non solo una massa d’uomini ma, come ben individuato da De Felice, "una parte della società italiana sino allora restata in disparte. E questa parte, mobilitata per la guerra, esclusa dal potere effettivo, dalla partecipazione, tese, attraverso il fascismo, a rivendicare, ad acquistare una sua funzione".

Il conflitto, dunque, come breccia alle dinamiche dei ceti medi emergenti, quelle tante articolazioni di una piccola borghesia sino allora schiacciata tra proletariato e notabilato, che dall’immane scontro di masse, tecnica e materiali aveva tratto un’identità forte e cercava una funzione politica rivoluzionaria. Sullo sfondo la “cultura della crisi”: Nietzsche, Bergson, Sorel, Pareto, Gentile, D’Annunzio, Costamagna, Pirandello e poi il Futurismo con Marinetti, il sindacalismo rivoluzionario con Corridoni.

Fu questa l’intuizione di Mussolini, l’ex agitatore massimalista romagnolo che, attraverso l’interventismo e la trincea, seppe trasformare in soli due incredibili anni un manipolo di stravaganti irregolari - gli uomini di piazza San Sepolcro: futuristi, repubblicani, sindacalisti, ex arditi, artisti, avventurieri, qualche massone - in una forza politica innovativa e capace, in quell’ottobre 1922, d’imporsi alla vecchia classe dirigente e alla monarchia sabauda, timorosi di un “salto nel buio”.

Come largamente indagato da De Felice, l’avvento e il consolidarsi del fascismo fu un processo complesso e contradditorio e di certo non riassumibile in quella “autobiografia della nazione” delineata da Piero Gobetti. L’esperienza mussoliniana fu tutt’altro che “una normalizzazione di masse quietistiche” o un mero “fatto d’ordinaria amministrazione” e il regime non si consumò, nonostante le pressioni passatiste, su orizzonti conservatori e/o reazionari.

Riprendendo la lezione defeliciana, si può tranquillamente sostenere che in Italia, nell’arco di un ventennio, sviluppò un tentativo di modernizzazione autoritaria - fonte d’ispirazione anche per le sinistre non marxiste europee e per il New Deal statunitense - ritmata da un’inedita mobilitazione e partecipazione delle masse. A cui è doveroso aggiungere, come fece il Maestro reatino: "Che ciò sia stato realizzato in forme demagogiche è un’altra questione: il principio è quello della partecipazione attiva, non dell’esclusione. Questo è uno degli elementi, diciamo così rivoluzionari. Un altro elemento rivoluzionario e che il fascismo italiano - anche qui si può dire demagogicamente, ma è un altro discorso - si pone un compito, quello di trasformare la società in una direzione che non era mai stata né realizzata".

Cent'anni dopo, con buona pace di quella stramba corte mediatica - quei personaggi che De Felice definiva i “professionisti dell’antifascismo senza fascismo” - che continua a evocare con toni apodittici lo spettro del defunto regime, rimane sul tavolo - e non è cosa da poco - un’ipotesi di studio su una “terza via” tra liberismo e marxismo, prima trionfante e poi incenerita da una sconfitta disastrosa. Un fenomeno storico articolato e tragico da indagare con scientificità e serenità. Senza paraocchi, schematismi e isterismi.

Il tempo finalmente è giunto.

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