La festa triste della cultura

Il vincitore annunciato dello "Strega", Luca Doninelli, diserta la presentazione del suo romanzo: cosa lo tormenta?

La festa triste della cultura

Gualtieri non era originario di Milano. Pur vivendoci da venticinque anni non aveva mai voluto rinunciare ai suoi tratti emiliani, che gli davano un'aria di bonomia e di simpatica schiettezza. Dove c'era lui il clima tendeva a distendersi, gli animi a placarsi.
Una sua frase spesso ripetuta da altri era: in un simposio può mancare l'intelligenza, non il vino.
Dopo queste parole chi le aveva pronunciate attendeva cinque secondi per vedere la faccia dell'interlocutore, poi aggiungeva:
Era una metafora, naturalmente.

Dire qualcosa di simpatico senza farsi troppo capire era una sua specialità. Chi gli stava davanti, specie se apparteneva alla stirpe degli intelligentissimi, si sentiva a disagio, capiva di non aver capito qualcosa e se la prendeva, forse era un'allusione non benevola, o forse.
L'ultimo suo articolo sul Corriere, comparso il giorno precedente quello dell'intervista, commentava in tono divertito la notizia della nascita di una start-up che curava l'allevamento e la vendita di topi urbani (sic), ossia topi come tutti gli altri - perlopiù bianchi e di taglia medio-piccola - da vendere a residenti in città, servizio a domicilio.
La richiesta di topi stava infatti crescendo a Milano, a Torino, a Roma, a Brescia, ed erano stati appunto due ragazzi bresciani ad avere l'idea della start-up.
Si contavano ormai a migliaia, infatti, quelli che allevavano serpenti in casa: dalle vipere comuni fino al mamba nero e al taipan. Molti erano i serpenti a sonagli, molti i cobra reali, non si contavano poi quelli di specie non velenose.
Ora, il topo (vivo) è la preda preferita del serpente, tutte le specie di serpente ne sono ghiotte, per questo i due brillanti ragazzoni - loro stessi allevatori di serpenti e di piranhas - avevano deciso di dedicarsi a questo nuovissimo business.

Proprio su questo aspetto si era sviluppato l'articolo di Lorenzo Gualtieri, che vedeva nell'attività dei due giovani bresciani il segno di una sorta di terremoto nelle gerarchie della natura. L'animale che ha dominato finora il mondo si ciba di animali morti ma, ecco la novità, è attratto da quelli che mangiano animali ancora vivi.
In questo caso l'animale assume una nuova funzione, sconosciuta in passato: non di utilità, e nemmeno di compagnia all'uomo, ma di supporto al suo voyeurismo, o scopofilia. Il fatto di alimentare questa tendenza allevando serpenti e non ricorrendo alla pornografia stava nel piacere dato dalla prossimità fisica di qualcosa che si sapeva totalmente intoccabile, come un serpente (magari velenoso) a caccia di carne viva, e al tempo stesso dal sentimento di pericolo, di possibile precipizio che tutto ciò infondeva negli animi di queste persone, per le quali Lorenzo Gualtieri non sembrava nutrire molta stima.
L'articolo era ovviamente pieno di espressioni oblique: leggendolo, era impossibile non pensare che stesse dando del cretino a qualcuno. Era anche possibile trovarci risvolti politici, perfino religiosi («L'Irraggiungibile che ci raggiunge - e ci uccide -» era il titolo del pezzo). Postato quasi subito sui social media, l'articolo suscitò grande interesse ma anche molta indignazione. Diversi commentatori provvisti di nickname si dissero offesi nel sentire paragonare la loro passione così difficile da coltivare a quella di certi maialoni che spiano le cose altrui dal buco della serratura.
Tuttavia quella sera, ripensando alla sua strana giornata, si convinse di avere scritto semplicemente un brutto articolo. Nella vigilia dell'uscita in libreria del suo nuovo libro vincitore annunciato del premio Strega, quando da almeno una settimana se ne parlava ovunque, con dibattiti molto accesi a causa dell'argomento trattato, e lui si sarebbe dovuto sentire straordinariamente bene, il suo umore si era fatto fragile e negativo.
La mattina dopo telefonò all'ufficio stampa del suo editore e chiese che fosse annullata la presentazione del libro prevista per il prossimo sabato al teatro Dal Verme.
Alla richiesta allarmata di spiegazioni rispose soltanto che doveva andare via.

***
Poiché viveva ormai da solo, quando si trovava in casa Lorenzo Gualtieri poteva amministrare il tempo come gli piaceva. La casa era grande e portava le tracce della famiglia che c'era stata e che adesso non esisteva più. Solo sua figlia veniva ogni tanto a passare un paio di giorni con lui. Aveva pensato più volte di trasferirsi in un appartamento più piccolo.
La sua storia con Martina aveva diradato molte amicizie. Ma i problemi con sua moglie erano cominciati molto prima.
Alta, minuta, pallida, dai grandi occhi neri, Martina era la pr di un famoso attore che Lorenzo Gualtieri aveva invitato in università per una lezione congiunta. Due sere più tardi, alle sei e mezza, lui e Martina si erano incontrati, con una scusa subito dimenticata, per un aperitivo al Four Seasons.
Martina era felice del proprio abbigliamento, tutto brevità e piccole trasparenze in punti innocui.
Non le ispiro cattivi pensieri, professore?
I cattivi pensieri sono all'ordine del giorno, mia cara. Non c'è istante in cui io non abbia un cattivo pensiero.
Io ho fatto del mio meglio.
Sono i buoni pensieri a mettere in pericolo.
Martina ebbe un istante di panico, da cui si riprese subito.
E io le ispiro buoni pensieri?, disse sporgendosi sul tavolino come per mostrargli il colore del proprio rossetto.
Martina al tempo aveva ventinove anni, lui quarantanove. La loro relazione fu duratura, basata su conversazioni neutre e intelligenti, sulla reciproca libertà e sulla rarefazione degli incontri, e così era rimasta sempre.

Il loro ultimo incontro, a un anno dalla fine della loro relazione, era avvenuto il giorno prima, per un caffè. Martina si era scusata di «non poterci essere al party», come diceva lei.
Decise che sarebbe partito di lì a tre giorni. Sarebbe stato lontano da casa piuttosto a lungo. Mi porterò via qualcosa, pensò, e così riempì di valigie il proprio letto e anche quelli nelle camere dei figli, da tempo vuote. Era il suo modo di fare tutte le cose (compresi i libri). Nove valigie in tutto per decidere quali (o quale) portare e quali e quante cose e come distribuirle nella o nelle valigie.
In realtà non aveva nessuna idea di quanto tempo avrebbe passato fuori casa, ma questa era una variabile secondaria. Decidere il tetto, vale a dire la quantità massima di cose da portar via non dipendeva dalla durata del viaggio. E nemmeno la varietà, e la distribuzione delle cose dentro le valigie. Gli venne il sospetto di star facendo tutto questo unicamente per immergersi nelle cose, lasciando perdere per un po' se stesso e gli altri interessanti ma prevedibili esseri umani.
Le cose. Che mistero! Stava per uscire il suo ventunesimo libro e si rese conto di non avere mai pensato veramente alle cose.
Nacque in lui un editoriale.
Cosa dal latino causa, non nel senso aristotelico ma perché tutto ciò che vediamo in qualche modo viene da qualche altra parte. La causa nascosta, i salti quantici. L'assassino (ma anche il benefattore) anonimo. Sono di moda i gialli, pensò, adesso sono tutti giallisti. Ma una ragione c'era: il bisogno di vedere ciò che non si vede. La cecità come suprema metafora del tempo, pensò: ecco qua il nuovo editoriale. Del tempo e anche dell'arte, ah sì.
Guardò i mobili della casa, gli oggetti sparsi, le cose in ordine e quelle in disordine: tutto quello che appariva nel suo campo visivo prima di essere lì era stato da qualche altra parte. Non i muri della casa, certo, però anche il materiale con cui erano stati costruiti quei muri veniva da altrove. Anche gli alberi, pensava, si trovano lì perché qualcuno li ha piantati lì o perché il vento ha voluto posare proprio lì i semi da cui poi si sono sviluppati. Sembra, ricordò, che esistano posti dove gli alberi camminano a causa della scarsità d'acqua, e allungano a dismisura le loro radici per poi rigenerarsi anche a grande distanza. Perfino le montagne più imponenti non si sono trovate sempre lì, e prima di essere montagne erano state anche loro qualcos'altro che non sappiamo bene.
Le cose sono viaggiatrici, e non importa se poi se ne stanno per tutto il tempo sopra una mensola, aspettando solo di essere spolverate.
Che bello, pensò, alzarmi domattina e non andare da nessuna parte, ma restare qui, e dopodomani lo stesso. Partirò fra tre giorni. Una cena con Martina, adesso siamo amici.
Restare qui, ecco la parola magica. La domanda che agitava gli antichi filosofi: cosa permane in tutto questo passare, in tutto questo spostarsi di tutte le cose? Hic manebimus optime. Partire per poter restare. Sì, questo gli piaceva, finalmente un piccolo ristoro. Ma dove sarebbe accaduto? Esisteva un appuntamento?
I suoi pensieri correvano.
Di cosa, tra tutto quello che vedo, posso dire: non se ne è mai andato? E non solo quello che vedo adesso, ma quello che ho visto in tutta la mia vita, e che vedrò in tutte le ore che mi restano. Non solo: aggiungo tutto quello che le mie orecchie sentono, hanno sentito e sentiranno, e così via.
I miei sensi possono registrare qualcosa che permane?, qualcosa che si trova qui perché è sempre stato qui?, il vero abitatore, o i veri abitatori, di questo luogo?
Pronto.
Ah sei tu, grazie per avermi chiamato.
Era Malinverni.
Momentaccio?
No, affatto. Vado a farmi un viaggio.
L'amico, che quella mattina l'aveva osservato bene com'era sua abitudine, glissò su molte cose.
Viaggio di piacere o di dispiacere?
Spero, naturalmente.
Scherzo. Ti sento di umore basso.
Pensieri sparsi, la casa vuota.
La vigilia dell'uscita è sempre così.
Intendeva parlare dell'uscita del libro, ma non fu subito chiaro.
Si produsse una pausa nella conversazione.

Quello che tutti e due volevano dire era un'altra cosa, e non è che non sapessero di cosa si trattava o che non trovassero le parole giuste, eppure alla fine di quella pausa il professor Lorenzo Gualtieri si accontentò di qualche simpatica osservazione sul fatto che quando un nostro libro sta per uscire abbiamo sempre l'impressione di avere scritto il libro sbagliato, e siccome il suo amico non poteva sperare di meglio, perché la conversazione stava prendendo una piega imprevista e lui poi si sarebbe pentito di avere fatto quella telefonata, ecco che anche l'amico si lanciò sullo stesso argomento, dicendo che tutta la vita è fatta così, poi correggendosi disse che questo era in realtà un segnale molto positivo: il libro si è definitivamente staccato dal suo autore, non è più suo, l'autore non lo controlla più, e altre cose come questa.
Tutto perché l'uno come l'altro sapevano l'altra questione, quella più difficile da far uscire, ma che in fondo nessuno dei due aveva voglia di affrontare.


Lorenzo Gualtieri pensò che tutta quella giornata si era svolta nel segno delle parole del poeta-barbone che si faceva chiamare Agilulfo, lette da sopra la spalla di un voluminoso sconosciuto sul metrò: un monito, un reproche generico ma pieno di dettagli nascosti, e questo nel giorno in cui il più importante quotidiano di Milano pubblicava la sua grande intervista.
Ti hanno chiamato ancora grande scrittore, finirò per crederci.
Risate reciproche.
Mio caro, grande scrittore è solo un po' meno che scrittore, a volte molto, molto meno.
Bum.

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