Controcultura

Gatsby, sempre grande in un'America decadente

Il capoilavoro di Fitzgerald torna in una nuova traduzione italiana. E la magia resta intatta.

Gatsby, sempre grande in un'America decadente

Le nuove traduzioni di romanzi nel tempo divenuti classici suscitano almeno in me un’istintiva diffidenza. Non tanto perché, mediamente, i traduttori di ieri conoscevanomeglio l’italiano di quelli di oggi, ovvero traducevano-tradivano con maggior felicità espressiva, ma perché l’averli letti allora significa averne conservato un’eco che è inscindibile con la vita, con il come eravamo, con il come saremmo voluti essere... Quei libri siamo noi e dà fastidio sentirci dire da un nuovo arrivato che non è così, che c’è un altro suono, che è addirittura migliore. Non si ritraducono insomma i ricordi, proprio perché, allora sì, sono solo questi ultimi a essere traditi... Sono considerazioni che mi sono venute in mente di fronte alla nuova versione diIl grande Gatsby (Neri Pozza, pagg. 195, euro 22) dovuta a Alessandro Fabrizi e che si avvale anche delle illustrazioni di Sonia Cucculelli, che non sono la mia tazza di tè, ma comunque non stonano nel dare al tutto una sorta di Kitsch da anni Venti in stile graphic novel, perché poi il romanzo di Fitzgerald era anche questo, un meraviglioso fumetto del sogno americano andato in pezzi. Rispetto alla traduzione storica di Fernanda Pivano, Fabrizi opera del resto con intelligenza, recuperando qui e là con maggior aderenza all’originale ciò che la Pivano aveva disinvoltamente omesso, oppure rendendone meglio letterariamente il senso. Se c’è un appunto è semmai sul politicamente corretto che fa scomparire i «negri» da quell’America fitzgeraldiana sostituendoli con il più pudico e, va da sé, antirazzista «neri», il che non è solo filologicamente sbagliato, ma lo è anche stilisticamente. Quando Fitzgerald fa apparire «a limousine, driven by a white chauffeur, in which set three modish negroes, two buks and a girl», due maschi e una ragazza, e «the yolks of their eyeballs», il bianco dei loro occhi, incrocia quello di Gatsby e del narratore «in haughty rivalry», con un’aria di «altezzosa rivalità», non sta in quel momento riferendosi alla neutralità di un colore, ma, come dire, a una rivincita razziale, i tre ragazzi negri vestiti alla moda a bordo di un’auto di lusso guidata, pensa un po’, da un autista bianco... E lo fa dopo aver appena descritto un corteo funebre dove gli sguardi degli amici del defunto hanno «l’occhio tragico e il corto labbro superiore tipici dell’Europa sud-orientale»... Ci sta insomma raccontando il melting-pot con tutti i suoi annessi e connessi... Quando usare «black», Fitzgerald del resto lo sapeva benissimo. Allorché Tom Buchan, il rivale di Gatsby, ovvero la quintessenza dell’americano con tanto di pedigree, naturalmente artefatto, di chi si ritiene tale da generazioni, fa la sua tirata contro il «Nessuno di Non-si-sa-dove» che vorrebbe portargli via la moglie e insieme minaccia la sana moralità made in Usa, è su «intermarriage between black and white» che pone il suo accento finale, ed è «il bianco e il nero» dei colori che rende l’idea di ciò che «intermarriage» razzialmente suggerisce... Tutto sommato, il «ci si sposerà fra bianche e negri» della Pivano è più brutale dello «sposarsi fra bianchi e neri» di Fabrizi, ma entrambi non rendono appieno in italiano ciò che sottilmente Fitzgerald ci sta dicendo in inglese. Bisogna dire che, a un secolo di distanza, Il grande Gatsby, comunque sia tradotto, mantiene intatta non solo la suafreschezza, ma anche la robustezza dell’impianto, una specie di gioco di scatole nascoste che dentro una storia d’amore contiene fra l’altro un’analisi del capitalismo americano, del potere e del sapore dei soldi, quale è raro incontrare. «La sua voce è piena di soldi» dirà a un certo punto Gatsby per spiegare il perché di un’attrazione trasformatasi in un sogno e in un’ossessione, e sta al narratore Nick ricamarci intorno: «Da questo derivavano l’inesauribile incantesimo nei suoi forte e piano, il suo tintinnio, il canto dei cembali... In alto, nel bianco palazzo, la figlia del re, la fanciulla dorata...» Giustamente questa nuova edizione del romanzo presenta per la prima volta tradotta in italiano una postfazione di Tony Tanner che figurava come introduzione all’edizione Penguin uscita trent’anni fa, e con lo stesso apparato di note basato sull’Apparatus di Matthew J. Broccoli, per l’occasione ampliato con cognizione di causa dal nuovo traduttore. Il testo critico di Tanner è esemplare nel suo rendere evidente ciò che un semplice lettore avverte senza però comprenderlo sino in fondo, ovvero «l’indefinibilità» del romanzo, la sua magica polivalenza. C’è il reale dove dovrebbe esserci il falso e viceversa e se uno cerca la verità non la trova perché ce ne sono troppe, a cominciare da quella dell’io narrante della storia, che non ci racconta chi è Gatsby, ma chi egli vuole che sia... È noto che inizialmente il titolo del romanzo sarebbe dovuto essere un altro, Sotto il rosso, bianco e blu, il preferito, ma anche Trimalcione a West Egg, dal nome dello sfrenato quanto volgare riccone del Satyricon. È curioso come, più o meno negli stessi anni, sulle due sponde dello stesso oceano, due scrittori così differenti fra loro come Fitzgerald, appunto, e Wyndham Lewis, per il suo Le scimmie di Dio, avessero un’attenzione così spiccata per il capolavoro di Petronio. Ma se il secondo applicava i nuovi ricchi dell’età neroniana alla vita intellettuale della Londra fra le due guerre, si capisce come per il primo Trimalcione non fosse tanto Gatsby, quanto ciò che gli girava intorno, ovvero un’America che era passata dall’infanzia alla maturità e subito alla decadenza senza tappe intermedie, bruciando tutto nell’ansia di arrivare e di godere. È anche questo a spiegare l’atteggiamento, infantile agli occhi di un europeo, di Gatsby, l’idea che il passato «si possa ripetere», si possa «far tornare tutto come prima»: basta comprarlo, ovvero farlo rivivere con la magnificenza, il lusso, il glamour a compensare e a rendere come nuovo il sapore di ciò che è stato. Gatsby, scrive Fitzgerald, aveva «una spiccata sensibilità alle promesse della vita, uno straordinario talento per la speranza, una predisposizione al romanticismo»,ma tutto questo, come ci suggerisce Tanner, non è altro che l’ideale reso presentabile del «self made man, un classico a partire dalla prima opera di RalphWaldo Emerson,Natura», dove l’identità americana «costruisce i sepolcri dei padri»: non avendo passato se lo crea, e nel crearlo falsifica ciò che non le piace. «In realtà, sono tutti nomadi irrequieti del Midwest, distinti solamente da una maggiore o minore disponibilità di denaro: l’irrequietezza è il mood dominante del romanzo». L’errore di Gatsby non sta in fondo nell’essersi inventato una biografia con cui nascondere gli affari loschi che lo hanno fatto ricco: come Balzac, anche Fitzgerald sa benissimo che dietro ogni ricchezza si nasconde un crimine... È nel suo non essersi attenuto a ciò che era: «un corpo crudele»... È grazie a esso che a suo tempo aveva preso Daisy «voracemente e senza scrupoli». Solo dopo ha voluto altro, si è inventato un’altra promessa cui tenere fede, un altro obiettivo da raggiungere, un altro, l’ennesimo, sogno americano. Avere di nuovo Daisy, ricomprarla, in parole povere, non è però più possibile perché Daisy era stata già comprata da un simil-Gatsby che intanto era entrato nella sua vita e che le era perfettamente complementare: «Erano gente sbadata, Tom e Daisy - fracassavano cose e creature e poi si rifugiavano nei loro soldi o nella loro diffusa sbadataggine, o qualunque cosa fosse a tenerli insieme, lasciando agli altri il compito di raccogliere i cocci». Come scrive Tanner, il problema con cui si raffronta Fitzgerald nel Grande Gatsby è «niente meno che questo: cosa può comportare, qual è la posta in gioco se si vuole cercare di vedere, e scrivere l’America stessa... Il risultato è conciso», frutto di tagli chirurgici rispetto alle prime versioni, «ingannevolmente semplice, con qualcosa della snella eppure pregna economia di una parabola.

Non c’è una parola di troppo ed è inesauribile». Buona lettura o rilettura che sia, perché la magia resta quella di sempre

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