Gentile e poi Croce, le due vittime eccellenti del "Migliore" Togliatti

Settant'anni fa venne assassinato il filosofo dell'attualismo. Subito dopo anche don Benedetto finì nel mirino del Pci

Gentile e poi Croce, le due vittime eccellenti del "Migliore" Togliatti

Giovanni Gentile e Benedetto Croce sono i due massimi filosofi italiani del Novecento. Con la loro opera, le loro vite e le loro morti dobbiamo ancora fare i conti se aspiriamo ad avere una vita civile più veritiera. Furono amici e collaboratori per trent'anni. Le loro filosofie si nutrirono l'una del pensiero dell'altro e insieme sbaragliarono il campo avverso: il positivismo. Il fascismo li divise ma durante la guerra, «quando l'Italia era tagliata in due», i loro destini tornarono ad incrociarsi. I due filosofi - con le loro filosofie: l'attualismo e lo storicismo - erano per Togliatti e il comunismo un problema. Andavano eliminati. Il 15 aprile 1944 Gentile fu ucciso a Firenze. Togliatti rivendicò subito l'assassinio per dimostrare a tutti, ma soprattutto ai pavidi intellettuali, chi ormai comandava. Il 15 giugno, due mesi dopo, la scena si ripeté a Salerno: Togliatti provò a far fuori Croce. Sul primo numero della rivista Rinascita aggredì duramente il filosofo della libertà accusandolo addirittura di essere fascista. Croce non si fece intimorire e nella prima seduta utile del Consiglio dei ministri del 22 giugno, nel quale era presente lo stesso Togliatti, si difese e sfidò il capo comunista ad epurarlo (la risposta di Croce si legge ora nei Taccuini di guerra editi da Adelphi). Togliatti, messo in ridicolo, capì ma non si arrese. Cambiò strategia: passò dall'attacco alla marginalizzazione. L'assassinio e la manipolazione sono due forme della lotta politica comunista o totalitaria. Il Pci con l'assassinio di Gentile e l'isolamento di Croce mirò ad eliminare ogni presenza di critica e pensiero autonomo.

A settant'anni dalla morte del filosofo dell'attualismo, il libro di Luciano Mecacci La Ghirlanda fiorentina (da domani in libreria per Adelphi) riapre il caso. Intorno alla morte di Gentile hanno sempre aleggiato dei misteri. Chi materialmente lo uccise? Chi furono i mandanti? Mecacci con nuove notizie e altri documenti fornisce diverse risposte a queste domande. Tuttavia, per quanto possa apparire strano, le domande più importanti sul delitto non sono tanto quelle su chi uccise e chi decise quanto questa: quali furono le conseguenze immediate di quell'«atto»? Quando Bruno Fanciullacci chiamò per nome Gentile, prima di sparare disse: «Noi non uccidiamo l'uomo, ma le sue idee». La verità è che Fanciullacci e il commando gappista che guidava uccisero proprio l'uomo mentre le sue idee furono ereditate - ma questo Fanciullacci non poteva immaginarlo - in maniera nascosta dal Pci. La filosofia della prassi di Gentile, ispirata da Marx, poteva essere facilmente coniugata anche con il comunismo. Il filosofo di Mussolini divenne - come ha scritto Sergio Romano nella sua biografia gentiliana - il maestro occulto del comunismo italiano.

Bastò fare qualche piccola riforma nominale - Partito comunista in luogo di Stato fascista, Partito etico in sostituzione di Stato etico - e naturalmente scartare ogni forma di pensiero nazionale e risorgimentale. Togliatti con la sua immediata rivendicazione del delitto - sull'Unità di Napoli definì Gentile un «traditore volgarissimo», «bandito politico», «camorrista», «corruttore di tutta la vita intellettuale italiana» - mirava a riconvertire al comunismo l'attualismo gentiliano e, soprattutto, a far capire agli allievi di Gentile che altro non avrebbero dovuto fare che togliersi la camicia nera e indossare la camicia rossa. Fu ciò che avvenne, prima e dopo la morte del filosofo. Tanti che lo avevano omaggiato, cercato, forse anche infastidito, lo mollarono, cancellarono con calcolo il loro passato e si rivolsero alla nuova chiesa totalitaria del comunismo. L'assassinio di Gentile, maturato in ambienti intellettuali, fu un delitto filosofico. Quando, due giorni dopo, Croce seppe della morte di Gentile scrisse, tra le altre cose, nei Taccuini di lavoro: «Ma, pur sentendo irreparabile la rottura tra noi, e, d'altra parte, essendo sicuro che in un modo o nell'altro l'artificioso e bugiardo edifizio del fascismo sarebbe crollato, io pensavo che, in questo avvenire, mi sarebbe spettato, per il ricordo della giovanile amicizia, provvedere, non potendo altro, alla sua incolumità personale e a rendergli tollerabile la vita col richiamarlo agli studi da lui disertati». Ma altro era il destino che attendeva anche Croce.

L'«affare Gentile» fu risolto con le pallottole. L'«affare Croce» non poteva essere liquidato allo stesso modo. Gentile era fascista, Croce antifascista. Gentile aderì alla Repubblica di Salò, Croce agì con gli Alleati anglo-americani e guidò da Sorrento finché poté le forze politiche italiane nel tentativo, riuscito, di salvaguardare la «continuità dello Stato nazionale italiano». Mussolini e i fascisti non uccisero Croce. A maggior ragione, pur volendolo, non potevano farlo neanche Togliatti e i comunisti. La prima strada tentata fu quella della delegittimazione. Per attaccare Croce e indicarlo come un nemico da eliminare, Togliatti prese le mosse dalla pubblicazione del saggio Per una storia del comunismo in quanto realtà politica che faceva parte dall'ottobre del '43 del primo volume dei Discorsi di varia filosofia (ora disponibile in edizione Bibliopolis). Ciò che Togliatti non poteva accettare di Croce era proprio la sua filosofia della libertà e la spregiudicatezza di pensiero che criticava il marxismo sia come errata dottrina filosofica, sia come aberrante realtà politica. Croce non si limitò più a criticare il marxismo come un'appendice sbagliata dell'hegelismo, ma lo attaccò sul terreno politico, dimostrando che là dove il comunismo si era affermato non era nato il regno della libertà e nemmeno il paradiso dell'uguaglianza, bensì una dittatura spietata e sanguinaria in cui i primi a pagare le conseguenze erano i contadini, i proletari e i povericristi ridotti in schiavitù. Di lì a poco Croce scriverà L'Anticristo che è in noi e La fine della civiltà proprio in riferimento al mostro totalitario ancora vivo dopo la fine del suo fratello gemello nazionalsocialista.

La delegittimazione non funzionò ma la manipolazione di Togliatti continuò su altre strade: marginalizzò Croce servendosi del controllo della cultura istituzionalizzata. E nel dopoguerra e nell'Italia repubblicana la cultura sarà sempre e soltanto istituzionalizzata e ideologizzata, passerà cioè attraverso i partiti, l'università, la scuola, gli enti, mentre la filosofia di Croce non solo era - è - extra-accademica, ma è anche una difesa dell'autonomia di pensiero da ogni istituzione o sapere organizzati. Ma è proprio questa cultura della libertà a essere estromessa nel dopoguerra con l'affermazione di una cultura organica, istituzionalizzata, corporativa, sindacalizzata che è la fonte dell'individualismo statalista nel quale il nostro Paese tutt'ora si dimena. Siamo inseguiti dal nostro passato rimosso e siamo orfani della patria e della cultura umanistica. Per liberarci del primo dobbiamo recuperare il rapporto con la seconda.

Solo così, forse, riusciremo a far pace con il passato ed a nutrirci di una buona cultura libera, se non di un'idea decente di patria comune.
* autore di Vita intellettuale
e affettiva di Benedetto
Croce (Liberilibri)

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