Cultura e Spettacoli

Idee (radicali) per la cultura: abolire il Fus e vendere la Rai

Decenni di scuola, informazione e università pubblica hanno soffocato l’innovazione e creato una mentalità parassitaria

Idee (radicali) per la cultura:  abolire il Fus e vendere la Rai

Ieri Vittorio Sgarbi, sul Giornale, ha stroncato il pur lodevole Manifesto per la cultura promosso dal Sole 24 Ore, ritenuto pieno di luoghi comuni e sottoscritto da molti intellettuali (sotto lo «strappo» della pagina di ieri). Per Sgarbi l’individuo vale più del collettivo, e più dei Manifesti vale il lavoro dei singoli. Oggi interviene Carlo Lottieri con una serissima provocazione: la cultura si sviluppa laddove le istituzioni non mettano i bastoni fra le ruote. Ed è lo sviluppo economico, non finanziato dallo Stato, a incentivare la ricerca e l’innovazione. Decenni di istruzione e e cultura di Stato hanno creato una mentalità da assistiti.

Pestare l’acqua nel mor­taio, si sa, non produce nulla. Per questa ragio­n­e sfornare generici ap­pelli in difesa della cultura, come quello del Sole 24 Ore finito ieri sot­to gli strali di Vittorio Sgarbi, non ci fa avanzare di un solo passo. Con l’eccezione di Joseph Goeb­bels e pochi altri, nessuno è mai stato disposto ad affermare aper­tis verbis di non farsene nulla del­la filologia romanza o del teatro barocco. Per giunta, se da un lato è vero che il nostro universo cultu­rale è in crisi, al tempo stesso biso­gna però intendersi su quali solu­zioni si offrano per uscire dal gua­do.

Su un punto il manifesto mi pare abbia ragio­ne: quando rileva che tra cultura ed economia c’è un rapporto es­senziale. Non è un caso sel’epoca dei Medici è quella di Michelangelo e Ariosto, Machiavelli e Galilei.L’Emory Uni­versity di Atlanta, stori­c­amente finanziata dal­la Coca Cola, è uno dei primi cen­tri al mondo perfino nello studio di Giambattista Vico, ma questo è solo uno degli innumerevoli pri­mati intellettuali di un’America che resta, nonostante tutto, il cuo­re dell'economia globale. Ovvia­mente non c’è alcun rapporto ne­cessario tra ricchezza e cultura, tra finanza e arti, tanto che - solo per fare un esempio - nell’Inghil­terra che pure ebbe Shakespeare non vi furono compositori di mu­sica dello stesso livello. In linea di massima, sono comunque le so­cietà più floride a produrre le idee e le opere più interessanti.
Bisogna egualmente aggiunge­re che letteratura, ricerca e im­prenditoria si sviluppano grazie a individui dinamici: quando le isti­tuzioni non sbarrano loro la stra­da. In altre parole, è solo entro un quadro di libertà e mercato che il sistema degli incentivi e la respon­sabilizzazione personale permet­tono,
 al tem­po stesso, la crescita del conto bancario e il confronto delle opinioni. Togliete spazio a burocrati e politici e, immediata­mente, aumenterete la probabili­tà che la cultura e il profitto si espandano di pari passo.
Purtroppo il manifesto segue al­tre logiche, specie dove afferma che la cultura «deve tornare al cen­tro dell’azione di governo». Biso­gnerebbe invece auspicare che i
 poteri si dimentichino di arti­sti e pensatori, dato che il rappor­to tra S­tato e intellettuali è una del­le più disastrose eredità novecen­tesche, figlio di una visione inter­ventista che si propone di pro­grammare anche questo aspetto della realtà sociale.
Ecco perché ci vorrebbe meno attenzione degli apparati pubbli­ci (compresa l’Agenzia delle En­trata) verso la cultura e perché, ad esempio, sarebbe buona cosa privatizzare quella che si auto­rappresenta come la principale
 azienda culturale: la Rai. Ma sa­rebbe pure necessario abolire il Fus (che finanzia il cinema e non solo), aprire le università alla con­correnza, chiudere il ministero della Cultura e attribuire sem­mai ai livelli locali quanto non è facile restituire subito alla socie­tà civile.

Va aggiunto che la cultura non solo quello strano oggetto di cui si occupano le pagine dei quotidia­ni collocate tra le quotazioni di borsa e i programmi televisivi, poi­ché in primo luogo essa informa le categorie con cui esaminiamo la realtà. E quando - per stare al­l’attualità del dibattito sulla rifor­ma del lavoro- si osserva lo schie­ramento trasversalmente a difesa dello status quo, appare chiaro co­me decenni di scuola, informazio­ne e università di Stato abbiano forgiato la mentalità di tutti noi. Anche al di qua della cortina di fer­ro, in qualche modo, si è avuta una mutazione antropologica non totalmente dissimile da quel­la tratteggiata da Ale­xander Zino­vev nelle sue pagine sull’homo so­vieticus.

Se la socializzazione della cul­tura è letale, non meno lo è la na­zionalizzazione. In questo senso, non mi pare proprio che regga l’idea che l’Italia sia un brand cul­turale e che la sua difesa sia un obiettivo anche economico. Ben al di là degli ap­parati pubblici e delle mitolo­gie poste a loro difesa, la quali­tà­di ciò che fac­ciamo non è giudicata sulla base di quello che rappresen­ta la Repubbli­c­a che ci gover­na. I marchi identificano imprese ben precise, che per giunta so­no in vario mo­do internazio­nalizzate e in­tr­ecciate con al­tri universi. So­lo in una logica colbertista si può pensare che esista «l’economia italiana», e non già un in­sieme di attivi­tà che in parte oggi si trovano (ma non si sa per quanto an­cora) entro i confini del Pae­se.
Da tempo il sistema produttivo vive in rapporti a rete che trascen­dono le frontiere, esattamente co­me la scienza o i dibattiti su musi­ca e cinema. Il passaporto conta davvero poco e non a caso Gian­franco Contini parlò di Giorgio Orelli come di un «poeta tosca­no », anche se è uno svizzero di Bel­linzona.

Con i suoi Minculpop l’Italia può generare retorica, ma scien­za e poesia possono venire soltan­to da persone in carne ed ossa.

E poiché lo Stato può solo intralcia­re e tassare, un suo passo indietro sarebbe una buona cosa. 

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