nostro inviato a Erice (Trapani)
N on è facile avere le idee chiare sulla senilità. Scrittori e filosofi non le hanno, ad esempio. Ecco due citazioni contrastanti tratte dai classici. Cicerone non ne parla male: «La vecchiaia, specialmente quella che ha conosciuto tutti gli onori, possiede un'autorità che vale ben più di tutti i piaceri della giovinezza». Invece Terenzio emette una sentenza senza appello: «La vecchiaia stessa è una malattia».
Ma se diventare anziani era nell'antichità un destino che toccava a pochi nel mondo contemporaneo la vita continua ad allungarsi. Non sempre però in modo qualitativamente adeguato. Soprattutto per quanto riguarda il mantenimento delle capacità cerebrali, quelle che consideriamo le più proprie dell'essere umano. Ecco perché agli «International seminars on planetary emergiences» organizzati a Erice dalla Ettore Majorana Foundation ieri si è discusso anche di «Invecchiamento del cervello e comportamento». In un pianeta dove la percentuale di anziani sarà sempre più alta, soprattutto in Occidente, le malattie degenerative, come il morbo di Alzheimer, rischiano di avere una diffusione endemica, in taluni casi di trasformarsi in un flagello sociale. Proprio partendo da questi dati la professoressa Mary Ganguli, geriatra e neuropsichiatra dell'università di Pittsburgh, ha focalizzato i problemi che dovremo affrontare nelle prossime due o tre decadi (quando la popolazione di ultra 65enni salirà a oltre l'11% in quasi tutto globo). Ci sono dei dati chiari : con gli anni i circuiti neurali diventano meno plastici e i neurotrasmettitori chimici si producono in minore quantità. Capita a tutti. Però molte funzioni cerebrali declinano lentamente, ad esempio la capacità di comunicare e di mantenere informazioni. E l'invecchiamento non agisce solo in negativo. C'è il grande peso dell'esperienza accumulata, è la maturità emotiva (si diventa meno nevrotici, parola di scienziata). Insomma il cervello di un giovane è «meccanicamente» meglio ma un po' più vuoto e con un software meno rodato
Esiste però il problema dei malfunzionamenti, di tutte quelle malattie che potremmo etichettare sotto il termine «demenza senile». Il loro indice di incidenza sale tantissimo dopo gli 85 anni di età. Ma come spiega la dottoressa Ganguli a quel punto c'è poco da fare, quello che conta la è «la partogenesi del fenomeno». «Bisogna insegnare alle persone a identificare i sintomi». Una gran parte del lavoro può essere fatta a partire dai semplici comportamenti quotidiani. Chi legge, studia, cammina (non si sa perché ma camminare dà grande beneficio al cervello), ha rapporti sociali complessi e vari, tende ad essere molto meno colpito da queste malattie. Insomma ci si può credere o no ma pare che con i cruciverba e mandando i nipotini dai nonni il mondo possa risparmiarsi qualche milione di malati.
Poi conta la diagnosi precoce e la genetica. In questo caso è stato il professor Bruce L. Miller dell'università della California a spiegare che la possibilità di marcare le proteine del cervello potrà darci in futuro grossissime capacità di diagnosi. Intanto è buona norma sapere che «la demenza non è un incidente singolo, è il risultato di un processo degenerativo...
Insomma hanno ragione sia Cicerone che Publio Terenzio Afro, tutto dipende da che lato si guarda la vecchiaia. E visto come va la demografia conviene guardarla con positività e occhio clinico.
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