Cultura e Spettacoli

L'uomo è una corda tesa tra vocazione e passione

In "odiodio" la storia di un ragazzo che conosce l'amore per la religione e quello per la carne.

È indubitabile che esista una naturale predisposizione degli uomini di scienza ad applicarsi con profitto alla letteratura. Molti esempi confermano questa regola, che non teme smentite: le Rime di Michelangelo escono dalla stessa mente che ha costruito solide e monumentali architetture, così come per Flora «la prima prosa grande d'Italia è da trovare negli scritti di Leonardo», il cui genio è il medesimo nella evocazione delle parole e nella ricerca scientifica e nelle invenzioni sorprendenti. Erano medici e scrittori Rabelais e Cechov, Cronin e Céline. Primo Levi, un chimico, trasfigura nel sistema periodico degli elementi l'orrore dell'Olocausto.
Ho conosciuto da vicino uno scienziato letterato nella nobile persona di mio padre, farmacista di provincia che ho scoperto, insieme a mia sorella, scrittore a 93 anni. Per una vita intera aveva comunicato con i silenzi, preferendo alle proprie parole quelle degli altri, soprattutto dei poeti che declamava a memoria senza inciampi. Ha iniziato a scrivere ultranovantenne e non ha più smesso, narrando il mondo che non avevo vissuto, e che ho potuto conoscere attraverso la sua voce.
Questa premessa era necessaria per ricordare che Andrea Salonia, professore di Urologia all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e scrittore, appartiene a una categoria di uomini illustri, divisi - o, meglio, uniti - tra scienza e poesia. Fin dal titolo del suo nuovo romanzo, odiodio, appena pubblicato da La nave di Teseo, provo per lui una certa simpatia. Non ho nulla di personale contro Dio, tranne il fatto che non so chi sia: non l'ho mai visto, non l'ho mai incontrato pur muovendomi parecchio in giro per l'Italia. Credo invece molto nella Chiesa, negli uomini dei quali vedo l'operato e che, ispirati forse dal Dio in cui credono di credere, hanno compiuto cose buone.
Dunque io non odio Dio, ma riconosco nel titolo di Salonia la provocazione intelligente di chi ha vissuto col divino una contiguità che non mi appartiene. Il protagonista del romanzo, Faustino, è un giovane che diventa sacerdote e missionario, ma abbandona la tonaca per amore di una donna. Mentre sento molto affine questa seconda scelta, posso dire di aver vissuto solo l'estasi laica dell'arte, davanti alle forme sensuali e peccaminose delle Maddalene del Morazzone o di Guido Cagnacci.
Faustino cresce in provincia, in una protezione parrocchiale che è, o forse era, quella di ogni paese d'Italia. In un quaderno raccoglie le parole che lo colpiscono, una al giorno, un dizionario della memoria. Nelle sue scoperte letterarie rivivo le mie letture clandestine in un collegio di preti, da ragazzo: se per Salonia la lettura porta a Dio, nel mio caso la scoperta della letteratura, e della libertà di pensiero, non poteva convivere con le regole ecclesiastiche e portava alla ribellione contro le regole di una rigida disciplina. Da missionario Faustino incontra l'amore in Africa («ho ricevuto un'altra chiamata»), una donna dal nome luminoso, Nives, e dalla pelle d'ebano, che ha il volto scolpito di un bronzo regale del Benin, ai vertici del Rinascimento africano. Colpito nella debolezza della carne, Faustino capitola due volte, lasciando il sacerdozio e soprattutto cedendo al matrimonio, peccato ben più grave dal quale lo avrei efficacemente dissuaso se fossi stato consultato. Era sufficiente peccare e confessarsi.
Da medico scrittore, Salonia dosa gioia e sofferenza nella vita dei due sposi, e in questa alchimia il romanzo si pone la sua questione più alta: perché Dio ci abbandona nel dolore? È la domanda che suscita la dannazione di Auschwitz, rinnovata l'11 settembre a New York, e ancora a Palmira; è la domanda che ciascuno nella propria coscienza si pone nei momenti più difficili della vita. È la domanda che Yossl Rakover, nel ghetto di Varsavia devastato dai nazisti, pone al Dio «che ha nascosto il suo volto al mondo», in quel folgorante testo, finalmente attribuito a Zvi Kolitz, che Lévinas definì «un salmo moderno».
Da ateo tendo a rispondere che Dio non interviene perché non c'è, pregarlo e appellarsi a lui è come chiamare con il cellulare un numero inesistente. Se la domanda a Dio resta senza risposta, vi è una dimensione del tutto umana in cui il dolore dell'abbandono si giustifica, e Salonia è capace di rappresentarla. Come una preghiera laica Faustino ripete alla sua Nives la formula rassicurante: «ti aspetto». In quell'attesa piena di desiderio è la speranza di salvezza dell'uomo. Anche mio padre rivolgendosi a mia madre affermava: «Lei mi parla ancora», il titolo che Pupi Avati ha scelto per il film che ha tratto dai libri di Giuseppe Sgarbi, farmacista scrittore. In quell'attesa, presente ed eterna, è il mistero della vita.

O di Dio.

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