Cultura e Spettacoli

Matteo Bussola: “La paternità è un gioco da bambini?"

La genitorialità vista con gli occhi dello scrittore e fumettista Matteo Bussola, che con il suo best seller Notti in bianco, baci a colazione ha aperto una finestra ad un nuovo modo di essere padri, che mette al centro i figli come perno e supporto della nostra vita

Matteo Bussola: “La paternità è un gioco da bambini?"

In un mondo complicato dove gli ideali sono in continuo mutamento, la figura del padre come "capofamiglia" assume un aspetto nuovo, ma non meno importante. Si affianca alla madre ricercando le sue stesse emozioni e condividendo gli stessi problemi, senza diversificare nettamente le due figure, in un mutuo aiuto e sostegno. In questo i figli, prima di contorno, ora sempre più al centro della vita familiare, assumono un ruolo fondamentale, completamente diverso dall'idea che c'era, e in molti casi c'è ancora adesso, fatta del solo doverli far crescere. Una figura quella dei bambini, che non hanno solo bisogni e necessità, ma che accompagnano e aiutano la genitorialità ad evolversi. Per questo sempre più padri decidono di viverla in maniera diversa, mettendo da parte carriera e lavoro e riconoscendo ai figli e alla famiglia un ruolo centrale nella propria vita. In un mondo che spinge e chiede sempre di più è un' utopia questa? Non proprio, perchè come racconta nella nostra intervista lo scrittore e fumettista Matteo Bussola, che questa scelta l'ha fatta, "Il primo anno di vita o i primi passi di un figlio non tornano più, e se non ci sei in quel momento, saranno persi per sempre".

Rispetto a qualche anno fa, sempre più famiglie decidono di cambiare la propria vita mettendo al primo posto gli affetti, rispetto alla carriera. Lei quando ha capito che le sue figlie erano qualcosa da non poter più procrastinare?

“Partiamo dal presupposto che io non volevo diventare padre, non era una cosa che mi interessava o era nei miei progetti. Tra l'altro diciassette anni fa ho conosciuto la mia attuale compagna Paola, che una delle prime cose che mi ha detto era che non poteva avere figli. Se dovessi riassumere la nostra storia in una frase, direi: 'un uomo che non voleva avere figli ha incontrato una donna che non poteva averne. E insieme hanno fatto tre bambine'. Quando ho saputo che era in attesa, per per me è stato uno sconvolgimento totale, perché oltre a non averlo pianificato, era una cosa che ritenevo impossibile con lei. Avevo questo atteggiamento difensivo nei confronti di una possibile paternità, perché ero un maschio figlio della mia generazione, e di una narrazione sul paterno che mi è sempre stata fatta vivere un po' come se fosse qualcosa da cui proteggersi. Viviamo ancora schiavi di questa idea che i figli siano qualcosa che arriva ad irrompere nella vita di un maschio adulto, quasi per togliere piuttosto che aggiungere. Quante volte abbiamo ascoltato la frase: ‘Non potrai più fare le cose che facevi prima’. In realtà quando poi sono diventato padre all’inizio ero molto arrabbiato, perché mi sono reso conto che mi avevano mentito. La paternità non era neanche lontanamente quella cosa che mi avevano raccontato. Addirittura anche dal punto di vista dell’apparente tempo sottratto, mi sono trovato a vivere una condizione paradossale. All’improvviso riuscivo a fare molte più cose. Questo perché prima di tempo ne perdevo tanto, ero un procrastinatore seriale. Quando è arrivata Virginia, la mia prima figlia, all’improvviso riuscivo a fare cinque cose insieme. Mi sono messo anche in carreggiata per realizzare il mio sogno di diventare disegnatore di fumetti. Era come se il tempo si fosse espanso. Ovviamente era solo un'impressione figlia di un’evidenza che, più o meno, tutti i genitori incontrano nelle loro vite. Quella che banalmente impari ad organizzarti meglio. Se hai meno tempo, impari a farlo fruttare di più. Dopodiché quando sono arrivate le mie altre due figlie, mi sono reso conto che la paternità è un’avventura indispensabile, perché mi ha portato fuori da me stesso. Prima ero molto centrato su di me, sui miei obiettivi e su quello che volevo dalla vita. Loro mi hanno dato una grandissima lezione, quella che la mia vita è stata completamente sconvolta e capovolta positivamente, grazie a qualcosa, anche se sarebbe meglio dire qualcuno, che io non stavo cercando. C’è da dire in onestà, che lavorando da casa, mi trovavo in una condizione privilegiata, anche se all’inizio l’ho pagata a caro prezzo. Nella nostra famiglia i ruoli parentali sono sempre stati molto sfumati, chi c'era faceva. Non è che stavamo a guardare le cose da mamma o da papà. Per fare un esempio io cucino, perché la mia compagna non ama farlo, ma allo stesso modo se serve, lei monta un lampadario o i lettini nella camera delle bambine. Per cui le mie figlie, trovano del tutto naturale chiedere a me cosa c’è per pranzo o cena e alla mamma di aiutarle a montare un quadro. Secondo me questo tipo di approccio è molto sano dal punto di vista dei figli, perché non crea territori esclusivi. Una famiglia non è niente altro che un luogo all'interno del quale vengono espressi bisogni. La cosa importante dal punto di vista dei figli, è che a questi venga offerta una risposta. Che arrivi dalla mamma o dal papà, non dovrebbe fare tutta questa differenza. Non è quella che decide la qualità della risposta. L'importante è che ci sia”.

In effetti dovrebbe essere così, anche se è ancora molto presente un retaggio culturale per cui spesso i figli, soprattutto subito dopo la nascita, vengono considerati un po’ della madre, ritenendo i padri poco all’altezza di questo compito.

"Questo è un discorso molto interessante, in cui mi avventuro pur sapendo che può essere scivoloso. Secondo me, ed è una cosa che per fortuna sta già accadendo, se vogliamo investire suoi nuovi padri, educarli ad una nuova consuetudine, all’affettività, ai lavori cosiddetti di cura, cioè ad addentrarsi legittimamente in quel territorio dal quale sono stati estromessi per anni, le donne devono smetterla di considerarli spesso questi inguaribili pasticcioni, a cui si affidano i figli quando non esiste alternativa. Quando accade c’è spesso una forma di supervisione, anche a distanza, da parte delle madri. Come se da soli i papà, non fossero in grado di curarli, anche proprio materialmente. Questo atteggiamento 'sub materno', secondo me è pericoloso. Perché alla fine trattiamo i compagni come se fossero anche loro dei figli. In questo modo non ci responsabilizzeremo mai”.

Forse questo succcede perché essendo le donne a partorire il loro rapporto con i figli è molto più corporeo.

“Lo 'skin to skin' che viene quasi mitologicamente considerato un'esclusiva del materno, perché le donne partoriscono e allattano, è tutto vero. Però l'esperienza corporea è molto importante, direi quasi soprattutto, anche per i padri. Proprio perché loro non hanno avuto tutto quel tempo della gravidanza, non hanno la possibilità di sentire un corpo che cresce dentro di loro. Si trovano tra le mani questo bambino che un momento prima non c'era, e un momento dopo c’è, e la costruzione del rapporto con lui, comincia da quel momento. Allora dico, che imparino davvero a maneggiare i loro figli, a tenerli stretti, a farli dormire addosso e a cambiarli. Non soltanto è una cosa importante, ma fondamentale. Per quello che vale la mia esperienza personale, come quella di tutti, posso dire che Melania, la nostra ultimogenita che ora ha 8 anni, ancora oggi la sera, la maggior parte delle volte la devo addormentare io. Sin da quando era piccolina, ci riesce solo sdraindosi sulla mia pancia, o appoggiata addosso a me. La mamma ha avuto una gravidanza problematica, e quando è nata era un po’ fuorigioco, quindi il primo periodo della vita è stata molto con me. Non so dire se i bambini abbiano l’imprintig come le oche di Lorenz, non so se sia l’odore della pelle, il battito cardiaco, c’è tutta una mitologia che si potrebbe costruire su questo aspetto, però è un fatto oggettivo che lei, ancora oggi, con me ha questo tipo di necessità”.

Facendo un passo indietro, visto che ha raccontato che non voleva diventare padre, come è stata la prima volta che ha visto Virginia, la sua prima figlia. Cosa di lei l’ha conquistata?

“L’impatto è stato fortissimo anche perché, in un certo senso, si diventa padri soprattutto la prima volta. È quella prima volta a proiettarti in una nuova dimensione dalla quale non tornerai ma più indietro. Dopo di che potrai essere un padre presente, un padre assente o uno così così, ma padre lo resterai comunque per tutta la vita. Là paternità è l’unica professione dalla quale non ti potrai mai più dimettere. E questo nella vita di un uomo, che è molto più addestrato sociologicamente rispetto alle donne alla sua libertà, ti cambia per sempre, perché è proprio uno spartiacque definitivo. Qualunque cosa farai nella tua vita non sarai mai più solo, anche volendolo con tutte le forze, non succederà più. Questa cosa non può non avere un impatto definitivo sulla tua vita, e sulla visione del mondo. Nel caso di Virginia, la costruzione del rapporto è stata assolutamente naturale. Uso questa parola non a caso, visto che la naturalità viene spesso tirata in ballo soprattutto per il femminile. Invece anche per me è stato così, nel senso che a partire da quel primo momento in cui lei si è affacciata in sala parto, io sono impazzito. È stata veramente la vita che mi è stata consegnata nelle mani. Nessuna esperienza è paragonabile a quella cosa”.

Lei per stare con sua figlia, ha anche lasciato il lavoro

“Mi sono licenziato dal Comune dove lavoravo come architetto, poco prima che nascesse Virginia. E questo l'ho fatto non soltanto perché volevo cominciare a disgnare fumetti. Era come se la prima lezione che volevo affidare a questa figlia che stava arrivando, fosse quella di dire: ‘Forse avrai un papà un po' meno ricco, ma un po' più sorridente’. Quindi alla fine vivevo insieme a mia figlia, mi svegliavo la mattina quando si svegliava lei, la cambiavo, la portavo fuori, è stata proprio un proccesso di crescita insieme, non c'è stato niente di critico. Siamo cresciuti, insieme alla mamma naturalmente, l’uno accanto all'altra. Forse ad un certo punto bisogna provarci e se c’è una cosa in cui si crede bisogna farla. Non sto consigliando nessuno, però nel mio caso ha funzionato. Ovviamente per una scelta così importante, bisogna avere accanto la persona giusta. Anche per questo ho capito che Paola lo era. Una persona sufficientemente intelligente per comprendere che la tua felicità è funzionale anche all'essere un padre e un compagno migliore. Paola è stata una compagna, che nei primi due anni della vita di Virginia, ha avuto il carico economico della famiglia principalmente su di lei”.

Ha spesso ha detto che il primo anno di un figlio non torna più, la prima pappa o magari la prima volta che cammina da solo. Perché è così importante? Alla fine ci sono anche le seconde volte nella vita di un figlio.

“È importante, ed è una profonda convinzione che ho, perché credo che i figli arrivino nelle nostre vite, per insegnarci una lezione fondamentale, quella di prestare più attenzione alle cose. Lo fanno per una ragione che è un'evidenza. Loro ogni giorno diventano. Soprattutto quelli piccoli, ogni giorno cominciano a fare una cosa nuova, o un po' diversa. Il problema è che ognuna di queste, presuppone l'abbandono di un'altra che non faranno mai più. O sei lì a vederla nel momento in cui si manifesta, oppure sarà persa per sempre. Per dirla in maniera molto banale, credo che sia la ragione per cui i genitori in genere fanno migliaia di foto o di filmini ai loro figli, nel tentativo di fermare l'attimo, di trattenere questa cosa che ti scivola tra le dita come sabbia. Siamo ossessionati dal questo desiderio. In realtà non si tratta di trattenere, ma di essere lì. Cioè la differenza tra un uomo e un padre, secondo me, è lo spostamento del focus tra l'essere e l'esserci. La cosa su cui gli uomini dovrebbero riflettere un po' di più, è che va bene il lavoro, va bene la carriera, va bene il dover mantenere la famiglia e le responsabilità, però ci sono delle cose che non tornano. Da quattro anni conduco una trasmissione sulla paternità, insieme a Federico Taddia su Radio 24. Abbiamo avuto modo di intervistare molti padri, sia famosi che non, soprattutto in questi ultimi due anni di pandemia, e la cosa che posso dire, è che molti di loro, in un un paradosso pazzesco, conservano di quel periodo di chiusura e paura, un ricordo molto tenero. Perché hanno avuto accesso improvvisamente ad un tempo che prima gli era stato precluso. Parlo di attori che erano sempre in tour e che si sono trovati a passar due mesi in casa con i loro figli piccoli, di manager in giro per il mondo che all'improvviso si sono ritrovati lì a dove parlare con i bambini. Quando il lockdown è passato e abbiamo ricominciato a muoverci nel mondo, ancora adesso molti di loro sentono una forte nostalgia. Secondo me quella cosa lì è servita, perché ha fatto capire a molti di noi che dovremo trovare il coraggio, la forza, il tempo, forse anche le agevolazioni politiche e culturali, per riuscire ad accedere sempre di più a questa dimensione. Anche perché tra l'altro, ogni uomo e ogni padre che passa più tempo con la sua prole in famiglia, per contro libera tempo alle madri e alle donne. Le due cose sono unite. Anche questo auspicio di una maggiore parità delle donne nel mondo lavorativo, dipende fortemente anche dalla collaborazione degli uomini dal punto di vista affettivo, parentale e nei lavori di cura. In ultima analisi riuscire a rendere questi territori più permeabili, dal punto di vista della coppia e della famiglia, porta un reciproco vantaggio”.

Fino ad ora, ma mi dica se secondo lei era una forma di consolazione, si diceva che l’importante fosse il tempo di “qualità” passato con i figli.

“È vero, allo stesso modo però, ed è la ragione specifica per cui probabilmente molti padri hanno delle oggettive difficoltà a mettere in pratica il tempo passato con i bambini, è che dal punto di vista dei figli, e ne ho la quasi certezza di questa mia affermazione, la quantità conta più della qualità. Averti lì come una presenza quotidiana è importante. Loro lo capiscono poco il senso di colpa dei padri che all'improvviso durante il weekend li portano al parco giochi perché devono fare tutto insieme, e scagionarsi in un solo pomeriggio del tempo che non c'è stato. È chiaro che i bambini si divertono, ma è il resto della settimana che conta”.

Avere un figlio felice e una famiglia povera, ovviamente estremizzando, è comunque positivo? Oppure lei pensa che questa sia una scusa, e che alla fine se qualcosa la vuoi davvero, o ne capisci l’importanza si possa fare tranquillamente?

“Non credo sia solo un discorso di volontà, perché non voglio cadere nell'iperbole di dire che 'se vuoi puoi'. Ogni situazione fa caso a sè. Penso che in prima battuta questo atteggiamento di maggiore presenza in famiglia, deve passare anche attraverso un cambio di paradigma. Cioé quanti soldi servono per avere una vita decente? Nel primo anno di vita di mia figlia, avevo cambiato lavoro e disegnavo fumetti. Guadagnavo 25 euro netti a pagina, e per realizzarne una ci mettevo due giorni. Per i primi 3-4 anni eravamo, spesso, senza soldi. Tutti i mesi arrivavamo al limite anche perché io e la mia compagna, facciamo due lavori che non hanno garanzie (anche Paola è una fumettista ndr). Non avevamo ammortizzatori sociali, ferie pagate o malattie. Se non lavoravamo non guadagnavamo. Il destino economico della nostra famiglia, è stato poi completamente ribaltato, dalla mia nuova incarnazione di scrittore, che è arrivata nelle nostre vite imprevista e non cercata. Ho avuto l'avventura di scrivere un primo libro, che è Notti in bianco, baci a colazione, (Einaudi), che è andato bene oltre ogni immaginazione. Quel libro ha cambiato tutto. Anche lì però, una parte di me l'ha vissuta come una salvezza per la parte economica della nostra famiglia, l’altra però ha un po’ nostalgia di quel periodo, perché c’era una consapevolezza che ora non c’è quasi più. Questo per dire che quando sei in ballo devi ballare, e alla fine fai con quello che c'è. Se sei in due e hai lo stesso obiettivo, non importa se guadagni 5mila euro al mese o 2mila, o 800, ce la fai lo stesso, perché hai la responsabilità di un'altra vita. Non voglio dire che ero più felice allora, però magari avrei potuto essere più ricco facendo altri lavori o altre scelte, ma oggi ho la profonda consapevolezza che non avrò mai rimpianti. Che sia alle mie figlie che al rapporto con loro, non ho sottratto niente. Ero più povero, ma più a fuoco su quello che volevo facesse parte della mia vita”.

Guardandosi indietro si considera un coraggioso?

“Più che coraggioso, mi considero un’incosciente. Credo però che anche questa parola abbia una sua importanza, nel senso che una delle ragioni per la quale il nostro Paese ha una natalità in crollo, è che siamo ossessionati dall’idea di sentirci pronti. Vogliamo prima il lavoro sicuro, la casa, la macchina, poi costruire tutto intorno il nostro perimetro di sicurezza e alla fine fare figli. Invece sono quelli a darti la forza, nel senso che fanno parte del tuo processo di crescita, della tua avventura nel mondo. Non c'è niente da tenere al sicuro, si rischia, si gioca, si evolve e ci si protegge insieme. Se si pensa ingenuamente di poter escludere i figli da tutto questo, e di poter esserne parte solo quando sarai pronto, non lo farai mai. Per questo parlavo di incoscienza, perché per me è una bella parola, che indica a volte il sapersi abbandonare. Forse è la parte migliore di noi stessi. Non bisogna stare tanto a pianificare, ma lasciare che le cose scorrano. Così anche tutte le difficoltà che poi arriveranno, si vivranno in maniera più serena. Tra l'altro porto la testimonianza che se tu fai le cose in cui credi, di cui sei convinto senza badare tanto alle convenienze, alla fine in maniera un po' storta e imprevedibile, la vita trova un suo modo per ricompensarti”.

Nel 1200 un monaco buddista diceva che per una società migliore bisogna crescere bambini felici. Nella nostra sembra che i figli siano quasi un intralcio. La maternità nel mondo del lavoro è vista come un impedimento, la paternità quasi non è contemplata. Forse c’è qualcosa che non va.

"La nostra società si ostina a mettere il lavoro contro la vita. Il problema è che noi la cosa dei figli felici l'abbiamo persa, perché li infiliamo nei ritagli di tempo, poi cerchiamo di conquistarli con i regali nei pacchettini colorati. Invece dovemmo proprio invertire il paradigma, e renderci conto che loro non sono solo qualcosa a cui noi serviamo, ma qualcosa che serve a noi. Non credo molto alla genitorialità che ci viene costantemente venduta come si trattasse solo di educare i figli o di mantenerli, anche se è una parte importante. Si dimenticano più spesso di dirci che è una relazione che prevede reciprocità e che quindi anche noi impariamo da loro. Dalle mie figlie ad esempio imparo tutti i giorni. Ogni domanda che mi fanno e la responsabilità di offrire loro una risposta onesta, mi costringe a guardare il mondo con occhi nuovi. C’è una frase bellissima del pedagogo polacco Janusz Korczak che dice: 'Per avere a che fare con i bambini, per mettersi al loro livello e guardarli negli occhi, non bisogna abbassarsi e farsi piccoli, ma bisogna alzarsi in punta dei piedi'. I bambini e le bambine hanno uno sguardo sul mondo che è molto diverso dal nostro, e riuscire ad attingere a quello quando hai a che fare con i tuoi figli, è una salvezza, perché ti riporta alla natura originale delle cose. Tante volte siamo noi a complicarle, spesso queste sono molto più semplici di tutti gli iper ragionamenti che ci costruiamo sopra. Secondo me dovremo uscire dall'idea che i genitori debbano essere costantemente al servizio dei loro figli, perché in realtà anche i figli sono al loro servizio. E' uno scambio, per questo è un'esperienza assolutamente inimitabile e necessaria, almeno per quanto mi riguarda.

Ognuno può trovare la via come preferisce, io dico che la paternità per me è stato quel salto e quello sguardo nuovo lì”.

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