Narrativa

Se penso a On the Road penso almeno a tre libri: il primo è Walden, di Henry David Thoreau, il quale, sapendo che «la massa degli uomini conduce una vita di silenziosa disperazione», s’imbuca nei boschi «a succhiare il midollo della vita» (e a scriverci intorno un libro contorto ed epocale). Il secondo è Mardi di Herman Melville, la bibbia dell’avventuriero e dello svagato viaggiatore che racconta «il nostro viaggio verso ovest», cioè verso le isole della Polinesia, evadendo da una baleniera. Il terzo libro che mi viene in mente è Fiesta di Ernest Hemingway, la vita sregolata e alcolica tra Parigi e Pamplona.
Kerouac sembra fondere l’ansia sociale e antiborghese di Thoreau, la spensieratezza di Melville, la disperata vitalità di Hemingway. Walden è datato 1854, Mardi è pubblicato nel 1849, Fiesta nel 1926. Fernanda Pivano, nella scheda editoriale inviata a Mondadori il 16 settembre del 1957, poco dopo l’uscita di On the Road negli States, scrive: «Forse è davvero il libro della nuova generazione, ma certo c’è qualcosa che non si è ancora visto in altri libri nuovi». Fatte le debite somme, è vero il contrario, non c’è niente di nuovo sotto il sole, altro che il nuovo che avanza, On the Road è il Romanzo Americano Convenzionale al passo coi tempi suoi. Semplicemente, cambia la quinta, mancano i boschi selvaggi e le balene bianche, manca il buon selvaggio (ma non i ragazzi selvaggi «di questa nuova generazione alla James Dean»), mancano i cafè parigini. Soprattutto, mancano agli altri le luci della ribalta che ha avuto Kerouac - in questo, assai simile al padrino Hemingway: costui è il paladino della Lost generation, l’altro della Beat.
Quindi, vuoi dire che Kerouac è tutta merda d’artista, affare commerciale eccetera? Mi fido del giudizio di Giovanni Ungarelli, patron della Marietti e per decenni a capo della Rizzoli: per lui Sulla strada è uno dei più grandi romanzi mai scritti. Lo pensavo anch’io, al liceo, sognando una vita suprema e straordinaria, senza pensieri. Non ne potevo più del sentimentalismo civile che grondava (e gronda) dai romanzi italiani. Poi, sono cresciuto, ho capito che forse la storia che Kerouac è il più bello e il più bravo dei Beat, l’unico pregno di dignità letteraria, è assurda: i Beat erano tutti poeti (Ginsberg-Ferlinghetti-Corso...), Burroughs è altra roba, non è Jack che abbia molti competitori intorno (e mettiamoci pure la morte precoce, capace di santificare anche i diavolacci). Anche la storia dell’ingenuità, dell’autenticità regge fino a un certo punto: la letteratura statunitense è fatta di bambini o di adolescenti (dall’Ismaele di Melville e Tom Sawyer ai lupacchiotti di London, all’Holden Caulfield di Salinger) che si rifiutano di crescere, improvvisando l’avventura - o le armi del sogno - contro il regno (borghese e convenzionale) degli adulti. Anche lì, niente di nuovo sulla strada. Tra l’altro, ogni barlume di folle ingenuità è devastato dalla pubblicazione oggi di On the Road. Il «rotolo» del 1951, curato da Howard Cunnell, ossia la versione originale del romanzo prima dei tagli del 1957 (Mondadori, pagg. CVI-382, euro 12): è tutto impeccabile (perfino le ultime pagine di Fernanda Pivano), ma, appunto, è come mettere una lapide sul muso del vento, ciò che è venduto come «trasgressivo» ritorna nell’alveo dell’ovvio, pappa universitaria come le altre, Kerouac studiato come Dante, Manzoni, Joyce.
Una noticina sullo stile del «rotolo», che riproduce la prima versione di On the Road, compilata febbrilmente tra il 2 e il 22 aprile del 1951: esso è davvero, come scrive Penny Vlagopoulos, «scritto in una sorta di gergo jazz». Ecco, quando penso a On the Road penso a un altro libro infinitamente più grande, Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline, pubblicato nel 1932, da cui sgorgano dolore, compassione e scrittura sincopata (jazz) a ogni pagina. Ecco, quando penso a On the Road penso che potrebbe piacere a quei nostalgici che s’imbucano nei jazz-club a tracannarsi fior di Negroni. Secondo voi il jazz è trasgressivo? È diventata roba per colti, proprio come Kerouac.
La pubblicazione del fantomatico, rissoso «rotolo» ha proprio questo significato specificatamente archeologico del bel tempo che fu, lo riconosce anche Cunnell: «la sferragliante pratica dattilografica di Kerouac si affianca alle furiose pennellate di Jackson Pollock e ai vertiginosi e vorticosi fraseggi di Charlie Parker al sax contralto». Ecco, quella «controcultura postbellica» è diventata cultura e basta, museale a tutti gli effetti, relegata nell’album delle cartoline del tempo andato (diversamente dai Melville e dai Céline, materiale urticante, conturbante ancor oggi). D’altra parte, però, Kerouac è lo specchio della narrativa statunitense odierna, che coincide con il fraintendimento totale di «una storia vissuta davvero». Gli americani sono ammalati di «realismo», di storie «in presa diretta», quando lo sanno anche i bambini che il punto non è compiere qualcosa, ma cosa anima quell’azione, non è andare in capo al mondo descrivendo la gita passo per passo (per questo, oggi, basta Alle falde del Kilimangiaro), ma cosa hai pensato, quali pensieri scintillanti e squassanti hai fatto andando in capo al mondo. Così, un bambino non ti dirà «oggi sono andato con la mamma al supermarket», ma «oggi ho cavalcato l’orca e ho distrutto il mondo, tagliandolo a metà»: ditemi voi cosa corrisponde più intimamente alla «realtà».
Dunque, sfoggiare On the Road mirando a una vita selvaggia andava bene qualche lustro fa, per un liceale spaccone come me. Ma niente cambia sotto il sole: per gioco ho incrociato Kerouac con l’ultimo romanzo di John Irving (già definito un capolavoro), Ultima notte a Twisted River (Rizzoli). Passano sessant’anni ed è sempre la solita storia di figli alla ricerca del padre, panorami violenti e mozzafiato, dolore a go-go, vite minuscole ma epiche, bordelli e dialoghi eccentrici. Realismo epico made in Usa. Siamo sempre lì, sempre quelle quattro coordinate per scrivere dettagliati e lunghissimi romanzi, migliori dei nostri, per carità, ma sempre gli stessi, tutti uguali.


Realisticamente, il Grande Romanzo degli Stati Uniti è un vecchio zio sulla veranda scassata che ti racconta quando il nonno andava a caccia di grizzly facendo assoli jazz con il fucile. E non ha più altro da raccontare.

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