Narrativa

Non credeva nel tempo, Vladimir Nabokov, e fosse stato per lui non sarebbe mai andato a dormire. «Il sonno è la confraternita più stupida al mondo, con la quota di iscrizione più alta e i rituali più grossolani. Non riesco proprio ad abituarmi a quella notturna frode perpetuata ai danni della ragione, dell’umanità, del genio. Per quanto spossato io possa essere, lo strappo che ci allontana dalla condizione di soggetto cosciente mi ripugna in modo indicibile». La vita gli appariva dilatata in un insieme senza dimensioni, ovvero in un’estasi nella quale tutto accadeva e tutto si configurava, nel nome di un istante moltiplicato e moltiplicatore che lanciava i suoi barlumi di bellezza davanti, dietro e in ogni dove, azzerando distanze, età, paesaggi... «Dopo l’uso mi piace ripiegare il mio tappeto magico, così da sovrapporre l’una all’altra parti diverse del disegno. E che i visitatori inciampino pure». Il suo tappeto volante gli permetteva di volare sulle ali della memoria come se si trattasse di un presente atemporale e sospeso nel quale ogni dettaglio era «sempre benvenuto», perché rendeva eterni gli istanti salvati così dall’oblio, dal silenzio, dal ricordo distratto e quindi doppiamente colpevole.
Era stato un bambino felice, Nabokov, e anche un adolescente felice, per quanto possono esserlo gli adolescenti che per di più scrivono poesie. Non c’era nulla in lui del ragazzino timido perché delicato, o del giovane intellettuale sofferente perché incompreso. In Parla, ricordo, il libro in cui assembla il proprio «come eravamo» familiare (Adelphi, pagg. 344, euro 23, traduzione di Guido Ragni, nuova edizione a cura di Anna Raffetto, inedita per l’Italia e basata sulla versione nabokoviana del 1966), c’è spazio solo per quello che, senza pudore, si potrebbe definire perfezione. Una madre bella, paziente e adorata, un padre in cui si rispecchiavano le migliori virtù di un’aristocrazia russa colta e liberale, un susseguirsi di governanti, precettori, cocchieri, giardinieri e servitori sparsi chiamati ad animare l’infanzia di un predestinato a cui nulla sembra negato dalla vita.
È un bel ragazzo, Vladimir, sognatore, ma anche sportivo: bravissimo giocatore di tennis, ottimo portiere nelle squadre di calcio che si susseguono nel corso di una carriera scolastica dove non ha nemmeno bisogno di brillare di luce propria, tanto è forte il riverbero della luce di famiglia. È un unicum, con le sue passioni coltivate in modo un po’ maniacale (gli scacchi, il verso, l’entomologia), ma in una terra che al culto dell’individuo crede e che infatti gemella il gioco degli scacchi e quello del football nel trionfo dell’individualità, non è un eccentrico o un’eccezione: rientra in un carattere nazionale. Diciottenne a Cambridge, Vladimir sperimenterà che lì il portiere è una figura poco amata, il contrario dell’équipe, dello spirito di gruppo, dell’understatement, di cui gli inglesi amano vantarsi. «In Russia questa nobile arte è sempre stata circondata da un’aura di particolare fascino. È l’aquila solitaria, l’uomo del mistero, il difensore estremo». Nei college di Britannia è un outsider, uno straniero in patria, oppure un esule, se quella patria non è la sua.
Dalla Russia Nabokov se n’è dovuto andare, e per questo la Russia la porterà con sé come se avesse al posto del cuore un microscopio e un minuscolo telescopio. Con il primo ingigantisce ciò che è stato, con il secondo avvicina ciò che di colpo si è allontanato e non può più essere raggiunto. Non ci tornerà mai più, ma è anche vero che non sente il bisogno di tornarci: quella Russia esiste solo dentro di lui, e ciò che ne ha preso il posto altro non è che una sanguinosa caricatura.
Proprio perché allevato in una famiglia che cerca di traghettare un passato autocratico in un presente democratico, Nabokov non è vittima di un Ancien Régime che rimpiange ciò che è stato, né si lascia sedurre dal nuovo che avanza e fa tabula rasa del passato. Il breve regno di Lenin non gli sembrerà mai «una sorta di affascinante quinquennio Neronis» e il disgusto per il bagno di sangue, l’esodo di talenti, il clima di terrore, la distruzione pervicace della dignità del singolo individuo non lo abbandonerà mai.
«Penso come un genio, scrivo come un autore eminente e parlo come un bambino». In questa triade esplicativa c’è un mistero e una dichiarazione d’intenti. Il passaggio dal pensiero alla sua esternazione resta irrisolto, la scrittura si incarica di un tramite altrimenti impossibile. Il fastidio, se non l’odio, per i giornalisti, o per chi si arroga il diritto di entrare in un territorio che non gli appartiene, nasce da qui. Al tempo in cui lavora ad adattare Lolita per lo schermo, Stanley Kubrick riceverà questa lettera, singolare quanto emblematica: «Mi piacerebbe parlarvi, ma ho orrore delle conversazioni telefoniche, soprattutto internazionali. Se volete, potete chiamare mia moglie. Starò al suo fianco per tutto il tempo della telefonata». Il fatto era che questo maestro della parola scritta, aveva in odio la parola orale: traditrice, infingarda, irrisolta. «Persino il sogno che descrivo a mia moglie mentre facciamo colazione è soltanto una prima bozza». E poi, chi lo intervistava cercava il colore, il sottofondo, il pittoresco, l’artificiale. E invece Nabokov inseguiva soltanto una voce che era la sua, quel «parla, ricordo» che non era una conversazione, ma una sinfonia, un’orchestra di cui non si limitava a essere il direttore: suonava tutti gli strumenti.
Scriveva per sé, Nabokov: «Non penso che un artista debba preoccuparsi del suo pubblico. Secondo me, il pubblico che l’artista s’immagina, quando immagina questo genere di cose, è una stanza piena di persone che portano la sua maschera». Odiava l’idea che l’arte fosse semplice, sincera, vera. «Nei suoi momenti più grandi l’arte è favolosamente ingannevole e complicata». Come la natura, del resto, come la vita: «Tutto è inganno in questo bello imbroglio, dall’insetto che imita la foglia alle ben note lusinghe della procreazione».
Fino ai quattordici anni, si ritenne un pittore. Non era dotato, confesserà, ma aveva il senso e l’amore per il colore e poi quel dono un po’ strambo di vedere le lettere colorate che si chiama cromestesia. Anche per questo le pagine di Parla, ricordo sanno di bianco e di blu cobalto, di miscele di blu e di rosso, di lampadine zaffiro, smeraldo, rubino... Anche per questo tutto è come avvolto in una penombra. «Le cose del passato rischiano di sbiadire se vengono esposte alla luce.

Sono come quelle farfalle e falene riccamente pigmentate che il collezionista ignorante appende in una bacheca alla parete del suo salotto pieno di sole e che, dopo qualche anno, impallidiscono, assumendo una pietosa tinta grigiastra». La troppa luce uccide ed è nella metamorfosi il segreto di ogni rinascita.

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