Per gentile concessione dell'editore Mursia pubblichiamo un estratto del romanzo di Fabrizio Carcano, Il mostro di Milano. Il giallo metropolitano pubblicato nell'estate del 2017 è già andato in ristampa sei volte in passato per via del grande successo ottenuto nei primi anni di vendita. Ora torna nuovamente in libreria, con una nuova edizione, dopo le tante richieste dei lettori dovute anche alla riapertura a livello mediatico del caso del presunto serial killer ritenuto responsabile di un numero indefinito di donne a Milano nei primi anni Settanta.
Le 16 sono già passate da un pezzo quando il commissario Vittorio Maspero, responsabile della sezione Omicidi, scende al bar per farsi un espresso.
Ha sonno, come sempre.
Vorrebbe dormire, se ci riuscisse.
Una sirena e una volante che sbuca dal portone e parte sgommando.
Un’altra sirena. E un’altra volante.
E’ successo qualcosa. Una rapina con il ciocco?
Il tempo di mollare la tazzina sul bancone e attraversare la strada e il portone della Questura sputa fuori altre due volanti.
Troppe ormai per non allarmarsi.
Dentro è tutto il cortile che pullula di volanti che escono impazzite a sirene spiegate. Che succede?
Avvicina un agente per saperne di più.
“C’è stata un’esplosione in centro, proprio dietro il Duomo. In una banca. Dicono che è esplosa una caldaia. Una strage.”
“Cosa?”
“E’ così. L’impianto a gas era vecchio ed è scoppiato. Pare ci siano diversi morti. Stanno tutti correndo là.”
Ferma una volante che sta uscendo e sale al volo.
Il mal di testa lo accompagnerà per i due giorni successivi. Quell’odore terribile, amaro, pungente, gli si è infilato dentro, attraverso il naso, la bocca, ficcandosi sotto pelle.
Per tre giorni Maspero ha faticato a fare tutto.
Pensare, mangiare, guidare.
Nella Banca dell’Agricoltura aleggiava un gas venefico, che l’ha intossicato.
Nei polmoni, nelle narici. E non solo.
In realtà là dentro c’è rimasto pochi minuti.
Quell’enorme cratere scuro, quel buco nero sotto quello che era il tavolone centrale di legno massiccio.
Troppe persone a urlare, a pestarsi i piedi, a fare casino inutilmente. A dare di matto.
C’era pure un prete, sconvolto, sporco di polvere, che elargiva parole di conforto ai feriti e preghiere per chi era già nelle mani del suo Signore.
E poi vigili del fuoco, portantini, normali cittadini entrati chissà come e chissà perché.
Troppe persone, troppe.
Per questo ha preferito andarsene quasi subito.
Non subito, però: quell’odore maledetto…
Un odore familiare, ricordo dei tempi del servizio militare, svolto in una caserma friulana dove c’era anche un reparto di artificieri.
Altro che un’esplosione alla caldaia.
Tritolo. L’ha intuito immediatamente, come tanti altri colleghi là dentro.
Un odore pazzesco. Impregnato di mandorle amare.
Esattamente come il cianuro.
Ma là dentro, in quell’inferno a due passi dal Duomo, tra le urla dei feriti, c’era anche altro: quel terribile fetore di carne bruciata, insieme a plastica fusa, carta bruciata, legno arso. Non aveva visto la guerra, intesa come i bombardamenti, perché suo padre li aveva spediti nella famosa casetta sui colli pavesi per evitargli quell’orrore e non avrebbe mai pensato, 25 anni dopo di vederla con i suoi occhi, di vedere cosa provocava un’esplosione, con gli edifici sventrati, le persone dilaniate.
Le 48 ore successive sono passate senza il tempo dell’orologio a scandirle.
L’altra bomba rinvenuta nella Banca Commerciale in piazza della Scala, poi fatta brillare dagli artificieri, le retate degli anarchici e di quelli della sinistra extraparlamentare, la Questura trasformata in un formicaio sempre in fibrillazione, giorno e notte.
Da due giorni Milano vive anestetizzata, la quotidianità procede automaticamente, come se i corpi facessero da soli e le teste li guidassero altrove.
La gente intasa i marciapiedi, gira nei negozi, va sul tram, guida la macchina.
Tutti si muovono, cercano di andare avanti, ma ad agire sono i loro corpi, le loro abitudini.
Le loro teste pensano solo alla bomba, dimenticandosi di tutto il resto.
Anche per Maspero è stato un fine settimana strano: è rimasto in ufficio tutto il tempo.
A ciondolare, a trascinarsi, senza concludere nulla.
E’ stato lì solo per esserci, per dare un senso a quelle ore, per stare nell’unico posto dove magari poteva essere utile.
E sentirsi ancora parte di qualcosa pur non facendo nulla, cercando di far trascorrere il tempo che non passava mai.
Don Geremia è un vecchio sacerdote, per molti inutile, provato da un’esistenza di dolore e preghiera.
Cresciuto senza padre, allevato in una parrocchia della bassa Brianza, dove la madre faceva da perpetua ad un sacerdote che l’ha accudito come il figlio che Dio gli aveva regalato, scegliendo per lui la strada della fede. Il seminario e la vocazione una naturale conseguenza in un percorso voluto dal Signore.
Era stato ordinato proprio nei giorni in cui i cannoni in Europa cominciavano a tuonare e aveva scelto di fare il cappellano militare: voleva portare la parola e il conforto di Dio a quei ragazzi spediti al fronte.
Temeva più il freddo della sete, per questo aveva chiesto di essere inviato sul fronte africano, nel deserto egiziano.
Non poteva immaginare di aver scelto la strada per il suo inferno, dove un colpo di mortaio inglese lo avrebbe obbligato al buio per il resto dei suoi giorni.
La fede lo aveva sorretto, Dio lo aveva preso per mano e accompagnato verso un cammino di solitudine e preghiera che lo avevano reso un uomo forte e rassegnato.
Avrebbe voluto fare il curato di uomini e anime, stare in mezzo alla gente, e per qualche anno ci aveva anche provato a dare una mano a Don Gnocchi, strimpellando uno sgangherato pianoforte, insegnando musica senza vedere gli spartiti.
Lui menomato in mezzo ai mutilatini, uno di loro.
Ma un prete cieco e con il volto spaventosamente deformato dalle ustioni era solo un impiccio.
Poi ci aveva riprovato, in un collegio gestito da sacerdoti: avviava i ragazzi al piacere della musica, insegnandoli i rudimenti del pianoforte.
Ma come fai ad insegnare se non vedi le note del pentagramma?
Il Signore aveva in serbo altri programmi per lui: i suoi timpani, già lesionati dall’esplosione, avevano perso sensibilità, rendendolo quasi sordo.
Anche l’insegnamento gli era stato precluso.
Così aveva accettato un sacerdozio fatto solo di preghiera, relegato a pastore senza un gregge di anime da confortare, in una chiesa in pieno centro che più centro non si può.
La chiesa di San Gottardo in Corte, un piccolo gioiello architettonico e artistico, a due passi da piazza del Duomo. Una parrocchia atipica non avendo una propria comunità di riferimento.
I palazzi delle vie adiacenti ospitano solo sedi di società o studi di professionisti di ogni genere, avvocati, architetti, medici, commercialisti.
E i pochi residenti in quella zona centrale o non frequentano le funzioni liturgiche oppure preferiscono andarsene direttamente in Duomo.
Per questo don Geremia non fa il curatore di anime, ma semplicemente il curatore di un luogo splendido, dove celebrare messa ogni giorno davanti a panche vuote.
Lui, da solo, con il vecchio Eugenio, un ritardato, pure lui senza famiglia e senza prospettive, che da anni lo assiste per espletare tutte quelle incombenze materiali dove non serve l’intelligenza ma bastano occhi buoni.
Giornate sempre tutte uguali, scandite dalla preghiera, dalla messa, dalle faccende domestiche, deliziate dall’organo che don Geremia suona come se fosse Mozart, regalando piacere alle orecchie del suo unico amico e compagno di sventura.
Quella mattina è come le altre.
Terminata la messa il sacerdote resta in chiesa, sulla panca in prima fila, a pregare, mentre Eugenio fa la spola con la sacrestia per riporre i paramenti liturgici, la casula e la stola, nella cassa dove li preserva dalla polvere e dall’umidità. Poi, come di consueto, il sacrista esce per fare le commissioni in via Torino, in latteria e nel negozio di alimentari dove hanno un conto aperto dalla Curia.
Starà via una mezz’oretta.
Ora è da solo padre Geremia, solo nel suo silenzio, quando avverte dei rumori confusi che filtrano ovattati nel suo orecchio mezzo buono, quello di sinistra. “C’è qualcuno?”, ripete più volte.
Il rumore dei passi sul pavimento, passi molto vicini, glielo conferma.
La voce rimbomba dalle sue spalle, dalla panca della seconda fila.
Il tono è pacato. Calmo.
“Voglio confessarmi.”
Don Geremia si alza e afferra il suo bastone senza esitazioni.
Di quella chiesa conosce ogni centimetro e nel suo buio si muove con facilità.
Si sposta fino al confessionale tastandone la porta.
Il penitente la spalanca per lui e lo aiuta ad accomodarsi.
Si appoggia alla sua mano.
Una mano giovane e forte, con la pelle liscia. L’uomo si posiziona sull’inginocchiatoio sul lato sinistro. Come se sapesse che il suo confessore può udirlo solo da quella parte.
Nel momento in cui fa scorrere la grata con un rumore metallico, pronunciando quella frase canonica, ‘apri pure il tuo cuore al Signore’, il sacerdote senza luce non potrebbe mai immaginare che quella sua vita di sofferenza fisica, e pace interiore con Dio e con il mondo, verrà stravolta da quella voce calma e pacata.
E dalle parole terribili che trapassano tra le maglie metalliche della grata.
“Ho ucciso padre. Il demonio si è impossessato del mio corpo e l’ha utilizzato per prendersi una vita innocente, senza che io potessi impedirlo. E’ accaduto senza che io potessi oppormi. Il Signore ha voluto così.”
La voce si ferma.
Il cuore di Don Geremia accelera, velocissimo, come non accadeva da quei giorni orribili della battaglia di El Alamein. “Era una donna di fede, lei non meritava di morire. Lei no, non lo meritava, non era come quelle altre…”
Il cuore di Don Geremia sobbalza ulteriormente.
Non riesce neppure a domandare chi.
Chi hai ucciso? A chi hai tolto la vita?
“… l’ho colpita e non mi sono fermato finché ho avuto fiato. Lei era una donna di fede, non meritava di essere uccisa così.”
Don Geremia è paralizzato.
Ingurgita quei particolari, insieme all’orrore che scivola dentro di lui, attraverso quel suo unico timpano malridotto e impreparato a filtrare il male che arriva così inatteso.
L’anima nera prosegue il suo racconto.
E termina, senza proferire parola alcuna di pentimento. L’anziano sacerdote trova nel suo cuore puro la forza per replicare. Per implorarlo.
“Non potrai ricevere il perdono per la tua anima se non farai una pubblica confessione di questo tuo peccato mortale.
Devi assumerti il peso delle tue colpe. Devi…”
“Non posso. Non adesso, non ancora.”
“Perché?”
“Perché sono il figlio del peccato.”
“Figliolo, calmati, io ti imploro di ascoltarmi…”
“No padre. Io sono il figlio del peccato. E sono stato scelto dal Signore per questo, per punirle tutte, per punire il peccato alla radice, estirpandolo.”
“Deliri, io ti supplico di ragionare. Io ti prego.”
“Padre, è tutto scritto nero su bianco. Anche nelle sacre scritture. La donna è l’origine del peccato e per causa sua tutti moriranno. Morirà lei, padre, morirò io, moriremo tutti… per questo loro devono essere punite. E io lo farò. Fino a quando Dio lo vorrà… io andrò avanti.”
Un rumore echeggia dalla grata.
E’ un rumore di movimento.
Seguito da un rumore di passi.
Se ne è andato, senza proseguire nel racconto dei suoi peccati. Senza attenderne un’assoluzione impossibile. Sull’inginocchiatoio ha lasciato una piccola croce di pietra nera.
Don Geremia trema. Sconvolto da una crisi isterica. Ha paura. Di quello che ha ascoltato.
Di quel segreto raccolto nella confessione.
Che dovrà custodire. È sconvolto.
Barcollando esce dal confessionale e s’inginocchia sui gradini di marmo che precedono la nicchia dove troneggia la statua della Vergine Maria.
Comincia a pregarla febbrilmente, invocandola. Senza interrompersi finché le forze lo abbandonano. Sviene senza accorgersene, accasciato sul pavimento freddo.
Quella del gioco è una maledizione che Maspero ha sempre avuto. Fin da ragazzino.
Gli piace puntare ai cavalli.
Ma all’ippodromo sei solo uno spettatore e la tua fortuna la devi affidare alle capacità altrui.
Ecco perché predilige le carte: procurano maggiore eccitazione perché al tavolo verde sei tu il protagonista e l’artefice della tua fortuna.
Il gioco, una maledizione impressa nel suo codice genetico. Una maledizione davvero per un commissario della Polizia di Stato.
In Questura fanno finta di ignorarlo e nessuno batte ciglio.
Anzi, i suoi colleghi della Mobile non hanno mai fatto una perquisizione nella bisca dell’Ortica, per il timore di pescare anche lui nella rete dei dannati del tavolo verde.
Del resto tanti colleghi hanno i loro scheletri nascosti nell’armadio: chi si tromba le puttane sventolando il tesserino, chi utilizza cocaina, chi arrotonda con traffici illegali in combutta con contrabbandieri e truffatori, chi estorce denaro a piccoli criminali in cambio di protezione dalle sue attenzioni.
Ognuno ha il suo peccato ad impedirgli di scagliare la prima pietra addosso al collega reietto.
Lui, Maspero, finge con sé stesso di aver tutto sotto controllo, trincerandosi nella facile scusa di essere un poliziotto diverso dagli altri.
Da quelli che sono poliziotti veri, dentro e fuori, da quelli che pensano di esserlo, da quelli che cercano di esserlo.
Forse perché il poliziotto non voleva farlo.
Doveva fare l’avvocato, se il destino non avesse deciso diversamente. Altro che il poliziotto.
E dopo 11 anni non vuole più farlo.
Due mesi ancora, poi l’aspettativa, si ripete.
Galeotto fu un concorso in un momento di disordine esistenziale a fargli da contorno. In una vita caotica voleva trovare ordine, interiore, mentale, infilandosi in una divisa, facendo parte di un qualcosa.
Non è andata così.
Il ragazzo disordinato e inquieto è diventato un uomo tormentato e dissoluto, con mille difetti, e vizi, e un solo pregio: il fiuto da segugio con cui è riuscito per anni a fare bene il suo lavoro.
Quello di commissario e poi capo della sezione Omicidi. Una squadra diversa dalle altre.
Un lavoro diverso dagli altri.
Alla Omicidi non ci sono inseguimenti, scazzottate, sparatorie, retate nelle bische o nei bordelli.
E nemmeno notti a fare gli appostamenti con un thermos di caffè che si esaurisce troppo in fretta.
Quello è il lavoro degli altri poliziotti, degli sbirri.
Alla Omicidi è tutto diverso. E torbido.
Di nitido c’è solo il male.
Pane quotidiano a sfamare la mente bulimica dell’investigatore, costretto a calarsi nei sentimenti peggiori e nei pensieri più cupi, immergendosi in un mare nero di invidie, odi, rancori, ritrovandosi ad annaspare tra demoni terreni e incubi notturni.
Un brutto lavoro. Qualcuno lo deve pur fare.
Maspero non lo ha scelto, lo ha accettato, senza cercare di farselo piacere, trovandoselo cucito addosso come un vestito perfettamente della sua misura.
Ne ha catturati tanti di assassini, guadagnandosi encomi, articoloni sui quotidiani ed elogi da colleghi e superiori.
Per un po’ si è illuso che fosse quella la benzina per far girare il suo motore, per un po’ ha funzionato, poi ha semplicemente compreso che confrontarsi con il Caino presente in ognuno di noi, quello che in alcuni individui emerge, e prevale, trasformandoli in esseri umani che tolgono la vita ad altri esseri umani, lo faceva sentire bene, lo faceva sentire migliore di quello che era.
Trovando un senso ad una vita vuota.
Vuota di giorno come la notte.
Che riempie andando lì, all’Ortica.
Un manipolo di casette e una chiesetta dietro alla Ferrovia.
Un paio di bar e diverse osterie.
Tra cui, una volta, l’osteria del ‘Gatto nero’.
Cucina tipica milanese proponeva il menù scritto sulla lavagnetta esposta sotto un pergolato.
Sotto, nella cantina, si giocava a carte.
Una bisca storica.
Una doppia attività, a conduzione familiare. A gestirla una famiglia milanese.
Li chiamavano i ‘Bosula’, ma certo non era quello il loro cognome all’anagrafe.
Il padre era stato contrabbandiere, i figli ladruncoli da quattro lire: dopo la guerra avevano investito il gruzzolo rastrellato con il mercato nero in quella vecchia cascina ristrutturata.
Sopra osteria. Sotto bisca.
Maspero aveva iniziato a frequentarla appena maggiorenne.
Il demone del gioco lo affascinava già da allora, quando in tasca aveva poche migliaia di lire, guadagnate scaricando casse di frutta e verdura ai Mercati Generali, e provava a moltiplicarle, gettandole sul tavolo verde.
Poi era entrato in Polizia, per un paio di anni era stato lontano da Milano: a Padova e a Torino.
Quando era tornato in città era tornato alla bisca. Trovandoci un altro mondo.
Via i Bosula, dentro dei catanesi.
Gente elegante e sorridente.
Che con l’Ortica non c’entrava nulla.
Addio alla cucina milanese e a quel gatto nero a penzolare nell’insegna.
L’osteria trasformata in un ristorante specializzato in pesce, la ‘La lampara’.
Rinomata per le grigliate e l’aragosta, lì, in quel quartiere periferico di gente semplice, dove la pasta e fagioli e il bollito la fanno da padrone.
Spariti i vecchi avventori la clientela è diventata di foresti, gente del centro, con macchinoni e mani bucate.
E sotto la cenere arde il fuoco del gioco, nella vecchia cantina diventata un piccolo casinò, con piante, lampadari di qualità, arredamento rinnovato, croupies in giacca bianca e farfallino rosso, l’angolo bar rifornito per ogni palato.
A dirigerla per qualche anno c’è stato un vecchio catanese.
Maspero sapeva tutto di lui: collezionista di condanne per svariati reati, si era fatto dentro dieci anni ed era uscito con una guancia sfregiata.
Da qualche mese lo ha rimpiazzato un giovanotto: ha l’accento milanese ma pure lui è di origine catanese, uno grande e grosso che pare uno scimmione, sempre strizzato in un gessato scuro.
Da bravo sbirro Maspero si è preso le sue informazioni anche sul ragazzo.
Francesco Turturro, una testa calda di Lambrate, brevi passaggi al Beccaria e a San Vittore, sempre per rapina. Era stato anche accusato di lesioni da un imprenditore che poi aveva ritirato la denuncia.
Un picchiatore della mala, promosso a biscazziere a soli 25 anni.
Nell’ambiente mormorano sia figlio di una donna di mondo e di un pezzo grosso di Cosa nostra, Frank Corona, migrato oltre oceano dove ha fatto fortuna con le bische.
Lo chiamano lo ‘zio d’America’.
Il pargolo mai riconosciuto dal boss ha ereditato il nome di battesimo, senza il cognome, ed è stato allevato da un fidato cugino, Salvatore Turturro, un altro delinquente sempre catanese, cui è stata appioppata anche la madre, che ha smesso con il mestiere per fare la signora, la mantenuta.
Anche il giovane Turturro si è informato su Maspero, il ‘commissario dagli occhi di ghiaccio’, quello che ha studiato all’Fbi, uno che non passa inosservato.
Ha dato un ordine preciso ai suoi: di trattarlo con i guanti bianchi.
Sa che non deve temere nulla da quel questurino particolare: dirige la Omicidi, una sezione particolare, che non si occupa di prevenire o reprimere i crimini comuni, ma deve solo catturare gli assassini.
Si incrociano e si salutano rapidamente mentre il commissario scende le scale.
Pochi minuti a mezzanotte.
I giochi possono iniziare.
In Questura hanno perso il conto del tempo.
Gli interrogatori proseguono a ritmo serrato, senza sosta. La gran parte dei fermati sono stati rilasciati: le 48 ore del fermo erano scadute.
Un gruppo di anarchici sono ancora lì.
Sono una quindicina. Bivaccano sulle panche, elemosinano sigarette dagli odiati poliziotti.
L’anarchico Giuseppe Pinardi puzza di sudore e di fumo.
Ha mal di testa, è nervoso: è oltre la stanchezza.
Continua a rispondere alle domande degli uomini di Calabria, pure loro sono andati oltre la soglia della stanchezza.
Gli occhi arrossati dal fumo delle sigarette e dal sonno che sta presentando il conto a tutti.
Anche il commissario Luigi Calabria è stanco, e nervoso, ma il Questore freme per avere una confessione che non arriva.
E lo vuole a rapporto.
Per cui infila la giacca sopra il maglione giro collo e avverte Pinardi: “Non finisce qui. Andiamo avanti appena rientro.”
L’anarchico sbotta a bassa voce un’imprecazione.
Il brigadiere Passigli lo manda al diavolo, avviandosi alla finestra per spalancarla e cambiare l’aria satura di fumo e del puzzo di uomini troppo nervosi.
Il tono delle voci sale di svariati decibel.
Poi il silenzio, a precedere quel tonfo.
Lo sentono tutti, persino ai piani alti.
E lo sentono in sala stampa, al piano terra.
Mezzanotte, l’ora di punta.
I ristoranti hanno chiuso, i cinema pure.
E’ chi non vuole ritrovare la via di casa finisce in postacci come quello.
Il professor Villani è al suo tavolo, quello dove si gioca lo ‘chemin de fer’.
Ha notato la figura massiccia di Maspero e naturalmente lo ha ignorato.
Per cui il commissario si rassegna ad attendere.
Fino a quando il primario non deciderà di andare al bagno.
Nel frattempo tanto vale giocarsi qualche soldo.
Il mazziere al tavolo del ‘Ventuno’ storce il naso vedendo che il commissario si accomoda.
Indossa la solita divisa di ordinanza, giacca scura di lana con dolce vita blu notte.
Gli altri giocatori lo guardano.
Soprattutto lo guardano le donne.
Gli sorridono. E ammiccano.
Nonostante il sonno arretrato e l’alcool ingurgitato è ancora un bell’uomo.
Un bel tenebroso con il fascino del dannato.
Prima di sedersi osserva il flusso delle carte.
Un rito scaramantico.
Ordina un doppio malto al bar e lo coccola qualche minuto, facendolo ondeggiare nel bicchiere.
Poi si decide e si accomoda.
Mette trentamila lire sul piatto.
Una settimana di stipendio di un ispettore.
Gli servono una donna. Di cuori.
Carta che non gli si addice.
Sorseggia il whisky aspettando che anche gli altri giocatori siano serviti.
Quasi tutti ricevono delle figure.
Rilancia, mettendo altre trentamila lire.
La seconda carta non lo tradisce: un re.
Il banco serve le carte agli altri giocatori che non hanno passato.
Sballano tutti tranne uno, che si ferma a 18.
Tocca al mazziere.
Che ha davanti un 7 che non promette niente di buono.
Pesca un 9 e capisce l’antifona.
Il successivo 6 gli conferma che non è aria.
Paga le poste e prepara il nuovo mazzo.
Maspero è contento così, intasca le sue 60mila e si alza perché Villani è comparso alle sue spalle.
Si avviano verso il gabinetto.
Un minuto dopo il commissario esce, in tasca la confezione di pasticche, il portafoglio più leggero.
Turturro è fuori, a fumare nel freddo della notte milanese.
“Già se ne va, dottore?”
“Non è serata, le carte non girano.”
“Saggia regola. Un bravo giocatore intuisce sempre quando è meglio fermarsi.”
Maspero si accende anche lui una sigaretta, senza rispondergli.
Non intende dargli confidenza.
“Il suo amico, il professor Villani, invece non si vuole fermare. Eppure è già sotto di diversi milioni”, butta lì Turturro, con un messaggio allusivo, per fargli sapere che sa molte cose su di loro.
E anche dei loro rapporti.
“Cavoli suoi. E non è un mio amico. Buona notte”, trancia il commissario, allontanandosi.
“Buona notte anche a lei”, ridacchia Turturro.
Sbagliando augurio.
Perché non sarà una buona notte per Maspero.
Il tempo di girare la chiave nella toppa e sentire il telefono di casa che squilla.
Brutte notizie. A quell’ora chiamano solo per quelle.
Dall’altra parte della cornetta il suo vice, Pietro Serpieri.
Portatore di notizie bruttissime, ma non strettamente inerenti al loro ufficio.
“Commissario, mica stava dormendo?”.
Dormire, magari…
“No, cos’è successo?”
“E’ successo un casino.”
Serpieri è stranamente agitato. Non è da lui.
“Chi hanno ucciso stavolta, un frate?”
“C’è poco da scherzare dottore, se quello muore sono casini per tutti…”
“Quello chi?”
“Uno degli anarchici fermati per la bomba. Venga qui subito.”
Una di quelle notizie che obbligano a infilarsi in macchina per precipitarsi in Questura.
Strana la vita, pensa, mentre l’Alfa 1750 argentata sfreccia in circonvallazione.
Qualche ore prima era salito dal Questore per ricevere l’aspettativa e uscire di scena, dalla porta di servizio, evitando i saluti, fingendo che fosse un arrivederci a sei mesi dopo e non un addio.
E invece eccolo di nuovo precipitato nella mischia.
Sbirro tra gli sbirri.
E per qualche istante lei, la biondina, e il suo posto di blocco immerso nella nebbia, sembrano un po’ più lontani…
All’ingresso ogni agente pretende di ripetergli l’accaduto.
Con varianti tutte diverse tra di loro.
L’unica verità è che dalla finestra dell’ufficio del commissario della sezione Politica è precipitato un uomo.
Lo hanno trasportato in fin di vita all’ospedale.
Difficile che possa salvarsi.
All’inizio gli agenti fanno persino confusione su chi sia l’anarchico caduto.
Il nome che snocciola Serpieri gli dice pochissimo.
Sarebbe un certo Giuseppe Pinardi, uno degli 84 fermati dopo la bomba di piazza Fontana.
“Hai presente, quello che stava torchiando Calabria da due giorni?, gli ripete Serpieri.
Prima di descriverglielo sommariamente.
Se lo ricorda.
Anche se per lui è un quasi perfetto sconosciuto. Lo ha intravisto negli ultimi giorni nei corridoi, nel bivacco dei fermati.
Gli è stato indicato dai colleghi del Politico.
Un anarchico barbuto, corpulento, sulla quarantina.
Gli hanno detto che è il capoccia del circolo anarchico del Ponte della Ghisolfa.
Lo stesso circolo che bazzicava quel Valpiana, il ballerino zoppo, quello fermato la mattina precedente e ritenuto l’uomo che ha piazzato fisicamente l’ordigno sotto il tavolone rotondo nella Banca dell’Agricoltura.
Comunque quella corsa notturna in ufficio non è servita a nulla.
Tranne a rimandare l’appuntamento con il sonno e con gli incubi.
Per il resto semplice spirito di corpo, giusto per poter dire ‘io c’ero quella notte’.
Quando Maspero è arrivato lo avevano accolto il solito trambusto di quei giorni e un’isteria elettrica.
Il ferito, gravissimo, era già in ospedale.
Il commissario Calabria e il suo dirigente erano barricati nell’ufficio del Questore che intorno alle tre di quella notte interminabile avrebbe incontrato i giornalisti, per raccontare come erano andati i fatti.
Versione traballante fin dalla prima sillaba.
L’anarchico, forse per la stanchezza, forse per i fardelli che opprimevano la sua coscienza, aveva letteralmente spiccato il volo: una finestra aperta per cambiare l’aria satura di fumo e quello senza pensarci si era tuffato nel vuoto.
Avevano cercato di acciuffarlo ma di lui avevano salvato solo una scarpa.
Il corpo era precipitato sotto.
Erano state ore frenetiche e il capo della Omicidi aveva intuito che era meglio defilarsi dopo aver fumato due Gitanes in corridoio, facendo il pieno di pettegolezzi.
Con il passare dei minuti la storia si faceva più chiara per i colleghi: Calabria era uscito per conferire con il suo superiore, allentando il guinzaglio ai suoi uomini, ai quali, troppo nervosi e troppo stanchi dopo tre giorni massacranti di interrogatori, caffè e sigarette, era partita la trebisonda davanti alla faccia di bronzo di questo Pinardi, uno che ribatteva ad ogni accusa come fossero in una partita di pingpong.
Così avevano deciso di fargli il giochetto dell’ascensore, avevano issato quel poveraccio per le gambe per fargli prendere un po’ d’aria fredda, a testa in giù, a 15 metri d’altezza, per schiarirgli le idee, facendo su e giù.
Finché, dimenandosi, quello gli era sfuggito, sfidando la legge di gravità.
Quasi 80 chili che precipitano per oltre 15 metri.
Uno schianto terribile.
Era schiattato appena giunto in ospedale ed ora sarebbero stati cazzi amari per tutti, come aveva profetizzato Serpieri quando gli aveva telefonato.
Per questo Maspero intorno alle due e mezza si era dato, correndo via nella città fredda e deserta fino a casa.
Si era scolato un bicchiere di whisky, poi un altro.
Aveva toccato il blister delle metedrine come fossero un talismano.
Poi si era coricato per qualche ora di sonno.
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