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Il dilemma dell'onnivoro

Ha davvero senso uccidere un animale per mangiarlo? Ne parliamo in questo articolo

Il dilemma dell'onnivoro

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Il dilemma dell'onnivoro

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Mio nonno la chiamava "caccia senza fucile", forse per dare l'idea a me, che all'epoca avevo solo sette anni, di fare qualcosa da grande. Da uomo. A pensarci oggi, però, credo che si trattasse più semplicemente del periodo di addestramento del cane, quello in cui si prendeva Billy e lo si portava nei campi sperando puntasse qualcosa e si facesse una bella corsa. Una pia illusione, però, perché durante quella strana "caccia senza fucile" non abbiamo mai portato a casa nulla, se non la nostra pelle, trovandoci in uno dei posti più tranquilli al mondo: la Brianza.

Era, quello, un momento di formazione in cui si imparava il silenzio e l'attesa. Ogni rumore, infatti, doveva essere percepito. Ogni cambiamento dei sentieri visto. Perché andare a caccia e uccidere un animale con le proprie mani non è come andare al macello, dove tutto è automatizzato e brutalizzato.

In un certo senso, ha ragione perfino Fulco Pratesi, il fondatore del Wwf, che ieri in un'intervista al Corriere ha chiesto scusa perché un anno fa ha ammazzato una zanzara. "Prendere una vita altrui è pesante", scrive Michael Pollan nel suo Il dilemma dell'onnivoro (Adelphi). Ed è proprio così. Non esistono animali di serie A ed animali di serie B perché tutti concorrono a mantenere l'equilibrio di questo strano pianeta chiamato terra.

Prendete per esempio Il piccolo popolo del giardino, recentemente pubblicato da L'ippocampo: lì dentro trovate tutti gli animali, anche i più disgustosi, che popolano i nostri terrazzi e i nostri spazi verdi. Quanti di noi, una volta vista mentre cercava di nascondersi nell'erba hanno ucciso una forbicina? Tutti, credo. Eppure, questo piccolo insetto è fondamentale, tanto che "certi giardinieri le accolgono di buon grado perché, essendo onnivore, mangiano gli afidi e altri insetti sgraditi". Prendere una vita altrui è sempre pesante, ma in alcuni casi va fatto. Un mondo composto solamente da vegetariani è impossibile e - scrive Pollan - "l'idea che l'uomo abbia iniziato a sentirsi a disagio di fronte all'uccisione degli animali solo in tempi moderni non è che un mito grazie al quale vorremmo sembrare migliori". È per questo motivo, per esempio, che "gli indiani d'America (...) ringraziavano l'animale che donava la sua vita così che altri potessero vivere".

Chi caccia sa che uccidere è terribile, ma necessario per mangiare: "È proprio del buon cacciatore - scrive Ortega y Gasset - un fondo inquieto di coscienza davanti alla morte che sta per infliggere all'incantevole animale". Sa che quello è, forse, un atto di hybris, di presunzione di potenza. Perché alla fine è questa la differenza tra chi uccide un animale e chi se lo trova già imbustato nel reparto macelleria: il primo lo ha visto morire, anzi lo ha ucciso con le proprie mani, il secondo no. Crede, come pensano molti bambini di oggi, che sia nato così: incellofanato.

Per questo motivo, Pollan propone un'idea rivoluzionaria: "A volte penso che per schiarirci le idee sul mangiare carne (...) basterebbe approvare una legge che imponesse di sostituire le pareti metalliche dei Cafo (gli allevamenti intensivi, Ndr) e i muri dei mattatoi con dei grandi pannelli di vetro. Se c'è un nuovo diritto che dobbiamo far entrare nel nostro ordinamento, forse questo è quello giusto: il diritto di vedere. Non c'è dubbio che in questo modo molti consumatori diventerebbero vegetariani, mentre altri si metterebbero a cercare modi diversi di procurarsi la carne, rivolgendosi a fattorie dove l'allevamento e la macellazione sono processi trasparenti".

Difficile non essere d'accordo con lui.

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