«Operaismo e Sessantotto alla base del terrorismo»

«Operaismo e Sessantotto alla base del terrorismo»

In queste settimane il dibattito sul rapporto tra il movimento del ’68 e la violenza politica degli anni Settanta è diventato rovente. Al centro del contendere un film come Romanzo di una Strage di Marco Tullio Giordana che racconta i fatti di Piazza Fontana con una tesi e un’ottica ben precisa. Tanto per dire, alla campagna di odio contro il commissario Calabresi dedica appena una manciata di minuti di pellicola.
Ma ha fatto discutere anche il fatto che Bolaffi abbia deciso di mettere all’asta dei volantini ciclostilati delle Br e che Marcello dell’Utri, dopo averli comprati, abbia deciso di utilizzarli per una mostra sul Sessantotto. Scelta che è bastata a scatenare la furia di Francesco Merlo il quale su Repubblica è partito lancia in resta per difendere la purezza ideologica del «movimento» dei figli di quel maggio che, spranghe o non spranghe, secondo lui nulla hanno a che vedere con la nascita del terrorismo: «Dell’Utri insomma vuole dimostrare che questi ceppi funerari, questi campi di sterminio di carta, questi cimiteri dell’intelligenza della politica e dell’idea stesso di rivoluzione, furono la maturazione del ‘68. Perciò sommerà patacca a patacca e farà un uso ancora una volta aberrante di un frustolo del passato. Nella Porta Portese dei beni culturali italiani il senatore trova sempre un straccio vecchio... per vestire i suoi fantasmi banali, le sue ossessioni, la presunzione - avete visto che ho ragione? – che lui sa la storia perché se la compra». Insomma chiunque tocchi il santino della nobile contestazione libertaria, mettendo in luce i suoi legami, più o meno diretti, con la lotta armata viene messo alla berlina. Del tema abbiamo deciso di parlare con Angelo Ventrone, Ordinario di Storia contemporanea dell’università di Macerata. Il professore esperto di storia dei partiti ha appena scritto un importante saggio proprio sui rapporti tra il Sessantotto e la violenza politica: «Vogliamo tutto». Perché due generazioni hanno creduto nella rivoluzione (1960-1988), pubblicato da Laterza (pagg. 380, euro 24). Nel testo molti documenti e citazioni d’epoca, poche interpretazioni ideologiche.
Professor Ventrone esiste un collegamento chiaro tra la contestazione degli anni Sessanta e lo sviluppo della lotta armata?
«La maggior parte dei libri che parlano della lotta armata iniziano con la nascita delle Brigate rosse negli anni Settanta. A me è parso opportuno analizzare il periodo precedente, tutti gli anni Sessanta. Fu con la rivista Quaderni rossi che si iniziò a riflettere sulla rivoluzione in un paese a capitalismo avanzato. Da lì nasce l’operaismo che è la cultura di riferimento sia della contestazione sia della lotta armata. Il Sessantotto, semplificando, fornisce una base di massa a questa elaborazione. L’idea rivoluzionaria dello scontro era già ben radicata».
Quindi la cultura dello scontro, della polarizzazione era già presente sin dalla nascita dei movimenti studenteschi?
«Il Sessantotto è un momento di transizione. Da un lato è calato nella cultura rivoluzionaria del ’900 e dall’altro ha una nuova prospettiva, più fumosa per certi versi. Si inizia a parlare di rivoluzione in fieri. Nessun gruppo sa esattamente che rivoluzione vuole ma tutti sanno di volerla subito. Vogliono che l’uomo nuovo nasca da una lotta».
E in questa fumosità però c’è la certezza di un linguaggio molto violento...
«Da questo punto di vista Piazza Fontana ha fornito a lungo un alibi. Si è sempre parlato di uno choc causato dalla violenza di Stato. Ma in realtà è un luogo comune, in buona parte. Il linguaggio della violenza era già lì da tempo. Piazza Fontana non è stata una perdita dell’innocenza, il linguaggio era molto violento ed aggressivo da prima. La violenza, almeno quella a parole, era un percorso condiviso da molti. Certo ha ragione Luigi Manconi quando dice che molti urlavano certi slogan ma pochissimi volevano davvero metterli in pratica e ancora meno lo fecero. Ma è innegabile che si tratta di due galassie comunicanti. La circostanza che molti abbiano negato questo fatto ha prodotto grandissimi danni alla ricerca storica e alla reale comprensione di quel periodo. Ma guardando i documenti con occhio neutrale risulta evidente che la violenza era già lì».
Molti però raccontano oggi un Sessantotto libertario, pieno di diritti civili, se vogliamo molto Kennediano e democratico.
«Non c’è dubbio che i movimenti rivoluzionari di allora descrivessero la democrazia come la maschera egualitaria dietro cui si nascondevano i privilegiati. Erano fortemente anticapitalisti e volevano passare attraverso un periodo di dittatura del proletariato. Ovviamente questo non significa negare tutti i grandi slanci ideali che si sono sviluppati in quegli anni. C’erano entrambe le cose».
Ma perché molte delle persone che hanno vissuto quegli anni nel parlarne o nello scriverne allora esercitano una forma di rimozione?
«Giocano molti fattori a partire da Piazza Fontana, come dicevamo sopra. C’è stata la tendenza a enfatizzare la violenza subita e non quella predicata o praticata. E poi c’è un effetto di distorsione.

Il Novecento è finito negli anni Settanta. In pochissimo tempo la società è cambiata tantissimo. La gente guardando in dietro non riesce davvero a credere di aver detto o pensato certe cose. Eppure lo ha fatto e non era un gioco».

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