Quei grotteschi errori da Top ten

Grammatica incerta, prosa traballante, idee confuse: ecco il campionario da Piperno a Faletti

Quei grotteschi errori da Top ten

Alessandro Piperno? Inventore di una lingua neo-geroglifica, fatta di arrotolamenti verbali, labirinti sintattici, aggettivazioni compulsive («cartacea ruvidezza», «tremebonda inadeguatezza», «superstiziosa soggezione», «inerte celebrità»), petulanti citazioni pseudo-colte (dagli Wham! all'onnipresente Proust), una sfiancante propensione per scene di masturbazione (almeno 30 performance onanistiche nel solo Con le peggiori intenzioni) e un'insistita ricerca, al riparo della sua sbandierata ebraicità, della political uncorrectness che prende di mira soprattutto gli omosessuali (12 tirate anti-frocesche nel suo romanzo più famoso).
Antonio Scurati? Autore di libri illeggibili, dalla prosa caricatissima («Doveva invece fiutare il momento singolare e fatidico, l'istante decisivo e fatale nel quale il concepimento del crimine era misteriosamente avvenuto nella copula tra le loro due menti»), azzoppati da marchiani errori storici (ne Il rumore sordo della battaglia si cita il tabacco in Europa prima della scoperta dell'America, si fa iniziare l'anno il 1º gennaio quando all'epoca era il 25 marzo, s'anticipa di un secolo la nascita del Granducato di Toscana), infarciti di pipponi sociologici (retaggio della cattedra di Linguaggi dei nuovi media), appesantiti da sciatteria, banalità, luoghi comuni narrativi.
E siamo solo agli scrittori laureati, (pluri)premiati dal mercato e dalla critica, la punta di diamante della narrativa italiana contemporanea. Immaginiamoci gli altri. Ma quale è lo stato di salute del romanzo, oggi? Se lo è chiesto lo scrittore Pippo Russo nel ferocissimo pamphlet L'importo della ferita e altre storie (Clichy) che sulla base di una maniacale analisi dei testi - stilistica, linguistica, narrativa - passa ai raggi X, raschiando la pelle fino alla carne viva degli autori, le opere di un gruppo di personaggi di «chiara fama» del mondo delle Lettere, mettendo impietosamente in luce, con citazioni puntuali, il peggio dei «migliori», da Piperno a Moccia: strafalcioni grammaticali (né Faletti né i suoi editor conoscono la consecutio temporum), nonsense (quelli di Fabio Volo riempiono un capitolo), eccesso di enfasi (la pesantissima magniloquenza di Scurati), incongruenze narrative, noiosissime tirate retoriche e insopportabili luoghi comuni (Piperno, Volo e Scurati escono con le ossa rotte dall'analisi delle scene di sesso), perfino spot pubblicitari «occulti» (il numero dei product placement nei libri di Faletti e Moccia è incredibile).
Ispirato nel titolo da una celebre americanata linguistica di Niente di vero tranne gli occhi, quando il protagonista «con un gesto istintivo sollevò la manica della tuta per controllare l'importo della ferita» - non l'entità, proprio l'«importo» - il saggio riporta una campionatura irresistibile di «Frasi veramente scritte dagli autori italiani contemporanei» (questo è il sottotitolo), attenendosi a un'unica regola, peraltro condivisibilissima: stroncare solo i giganti, cioè i bestseller, ai quali, come scrive Pippo Russo nell'introduzione, «toccherebbe un supplemento di responsabilità sociale, perché in queste pagine uno sfondone linguistico ha ricadute di massa».
E così, sotto la macchina trituratrice finiscono tutti i più «grandi», a partire dal «più grande scrittore italiano», come lo definì su Sette nel 2002 Antonio D'Orrico (e qui ce n'è anche per lui): Giorgio Faletti. Del quale si dimostra il tormentato rapporto con la lingua italiana, oppure l'uso di un gosth writer americano. Altrimenti come si potrebbe scrivere «la testa di April riemerse in un movimento di capelli vivi e iniziò a infilarsi la camicia», o «Anche se la sua vittima avesse chiesto aiuto, cosa di cui dubitava, di solito nessuno si immischia in certe faccende» (!?!) oppure usare espressioni inesistenti come: «parole gracchiate attraverso il microfono poco attendibile dell'apparecchio», «la voce organizzata di Mary la sorprese a mezza strada», «Oddio, non che non gli piacessero le donne. Era un fior di regolare...» (regular guy in americano indica uno normale, a posto, con appetiti sessuali «regolari»). Insomma, una scrittura da rivedere «da cima a piedi» come scrive Faletti con una curiosa crasi fra «da cima a fondo» e «da capo a piedi».
Tutto sommato però dalla radiografia letteraria di Russo, ancora più dei narratori improvvisati come Pupo (l'esame del thriller La confessione, fra lingua brada e psicologie «tagliate con la motosega e rifinite col napalm», è stracult) e Giuliano Sangiorgi (del quale si segnala l'uso “metrico” delle virgole e la “filosofia da canzonetta” tipo «ma se il mondo è soltanto solitudine e aria, solo il nulla allora li attraversa e solo il niente in cambio può dare»), a uscirne peggio sono Fabio Volo e Federico Moccia.
Volo, dall'alto dei milioni di copie vendute dai suoi sei «romanzi», sprofonda nei tormentoni (divertente l'auto copia-incolla da un libro all'altro delle stesse battute su: carta igienica, seghe, donne, frigo vuoto, il coito, i bisogni corporali e «il vero amore») e nelle frasi profonde sul senso-della-vita (un capitolo devastante).

Moccia, invece, è schiacciato dalla stessa leggerezza narrativa dei suoi libri-mattone (450 pagine in media). Senza contare che dal micidiale pamphlet di Russo sono rimasti fuori Mazzantini, Bignardi, Murgia, Jovanotti e Ligabue. Per ora.

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