Venerdì scorso Vittorio Sgarbi su queste pagine ha stroncato il pur lodevole Manifesto per la cultura promosso dal Sole 24 Ore, da lui ritenuto pieno di luoghi comuni e sottoscritto da molti intellettuali (in basso, il titolo della pagina del Giornale di due giorni fa). Per Sgarbi l’individuo vale più del collettivo, e più dei Manifesti vale il lavoro dei singoli. Dopo l’intervento, pubblicato ieri, del filosofo liberale Carlo Lottieri, il quale argomentava che la cultura si sviluppa soltanto se le istituzioni non le mettono i classici bastoni fra le ruote, oggi la parola passa a uno scrittore, Massimiliano Parente.
Quando un altro scrittore mi chiama «collega» provo l’istinto di dargli un pugno in faccia, ma collega di che? Come si permette? Per le stesse ragioni a sentir parlare di «una costituente per la cultura» ho la nausea, senza contare il lessico da Ventennio, i pomposi richiami al «passato glorioso»,il«rapporto tra sviluppo e cultura», o peggio ancora l’appellarsi alla Costituzione che impone di «promuovere lo sviluppo della cultura»,come quelli che vogliono il posto fisso perché la Repubblica è fondata sul lavoro, mi viene da vomitare.
Invece qui sono tutti felici di firmare per la cultura, da noi ogni occasione è buona per firmare qualcosa e fare carte false pur di non sudarsele su un’opera, perché siamo un Paese di passacarte e borghesi piccoli piccoli dove la cultura è una parola ammuffita, un refrain funebre, una scartoffia burocratica, una petizione, un appello da firmare, una causa di cui riempirsi la bocca, o al massimo un Augias all’ora di cena, come ha scritto ieri Aldo Grasso.
Ecco perché la maggior parte dei nostri romanzi fanno schifo, i nostri film fanno schifo, i nostri artisti fanno schifo: non sono scrittori, non sono registi, non sono artisti, non sono neppure santi né poeti né navigatori, sono tutti aspiranti impiegati statali. Ecco perché, perfino a livello di intrattenimento, all’estero la BBC produce le fiction e le esporta nel mondo e da noi la Rai produce le fiction e gli italiani se le ciucciano, abituati a prendere ciò che passa il convento: preti di campagna, carabinieri di provincia, medici sfigati. Inoltre se salti la finestra e te ne vai a teatro stessa minestra: gli attori, dopo aver recitato una commedia penosa scritta da loro stessi, riaprono il sipario e ti recitano una lagna mestissima leggendo un foglio perché gli hanno tagliato i fondi, poverini. Fosse per me gli taglierei direttamente la testa. Non so immaginarmi Louis Buñuel trascorrere il tempo a convincere un ministro a finanziargli L’angelo sterminatore , e Federico Fellini si vendette l’orologio per contribuire al tormentato finanziamento de La dolce vita , e dopo la rottura con Dino De Laurentiis andò a battere cassa da Angelo Rizzoli, mica all’Inps. Anni dopo, invece, lo Stato gli negò i finanziamenti per il suo ultimo film, finanziando piuttosto i film di Marina Ripa di Meana, perché questo è un altro punto dello Stato quando si occupa di cultura: chi decide cosa è cultura e cosa no?
Non so immaginarmi, d’altra parte, nemmeno i cubisti chiedere finanziamenti all’accademia delle Belle Arti, né Marcel Proust passare gli anni a impegnarsi per avere una prebenda anziché chiudersi in una stanza, per oltre dieci anni, a scrivere la Recherche con un’unica ossessione:finirla prima di morire. Insomma, non siamo mica nel Cinquecento, dove Michelangelo per essere Michelangelo doveva affrescare le cappelle al Vaticano.
Tuttavia ci piacciono gli appelli perché ci fanno sentire colti, mobilitati, impegnati, siamo un Paese di falsi invalidi e falsi artisti, di fondazioni pubbliche che non fondano niente, di giovani autori neppure così giovani ma fra i trenta e i quarant’anni che si riuniscono chiamandosi TQ perché non hanno un capolavoro ma vogliono un posto di lavoro. Siamo un Paese di sindacalisti dell’arte che non c’è: impara l’arte e mettila da parte oppure cerca di farne una carrierina.
Siamo artisticamente un Paese di salottini, di circoli, di conventicole, di premi letterari e case della cultura, siamo un Paese di massonerie frignanti, di presunti zombie amanti della cultura che al massimo dell’orgasmo sdilinquiscono per Benigni che legge la Divina Commedia e l’Inno di Mameli e quindival bene una messa o quantomeno la messa in quel posto del canone Rai.
È culturalmente significativo perché questa voglia di finanziamento statale e collettivo è l’opposto della libertà, un retaggio della cultura fascista, tant’è che l’unica avanguardia italiana, il futurismo, finì tristemente proprio quando il fascismo divenne lo Stato: gli unici manifesti scritti da Filippo Tommaso Marinetti erano quelli del futurismo stesso, bellissimi perché voleva distruggere la cultura ufficiale, appunto, inclusi il chiaro di luna da uccidere e Venezia da cementificare, e non certo per andarci a ritirare un Leone d’Oro.
Non solo un retaggio della cultura fascista ma anche di quella marxista, altra ideologia in cui l’individualismo è cancellato per partito preso, di nuovo in nome dello Stato e della ragione sociale, non di quella individuale, basti guardare cosa sono diventate anche lì le avanguardie russe, il costruttivismo, il suprematismo, il quadrato nero di Malevic, non appena il comunismo è arrivato al potere: quella cagata del realismo socialista.
Non solo le lezioni della sinistra e della destra totalitarie ma le supposte, molto supposte aspirazioni culturali italiane hanno assimilato anche la cultura democristiana, che essendo cattolica amava l’assistenzialismo e detestava l’individualismo. Ecco perché da noi, per fare cultura, fanno tutti politica, o meglio un’imitazione della cattiva politica, perfino i comici, basta guardare la trasmissione di Sabina Guzzanti, più funebre perfino del lazzaretto televisivo olocaustico di Gad Lerner. Un vero artista, viceversa, teme lo Stato, perché lo Stato, rappresentando la collettività, ossia un fine esterno alla rappresentazione artistica, rappresenta per forza di cose una limitazione della propria irriducibile libertà espressiva.
Io piuttosto che ricevere un premio alla carriera o un vitalizio statale mi suiciderei, perché sarebbe la prova di non essere mai stato davvero uno scrittore, e se mai fra trent’anni io dovessi essere così rincoglionito da accettare una Bacchelli, vi faccio un appello fin da ora: qualcuno mi venga a sparare.